sabato 17 maggio 2014

Imparare a vivere per raccontare meglio




Parlando con un amico più vecchio che compiva gli anni, a un certo punto me ne sono uscita dicendo che penso di avere qualcosa da raccontare.
Non avrei mai immaginato di pronunciare un giorno una frase così, non perché, in fondo in fondo, non lo pensi davvero, ma per la modestia che generalmente sbandiero nelle più svariate circostanze. 
Una modestia, a volte, fuori luogo, che però in ogni caso preferisco all'eccesso di sicurezza ostentato da troppa gente che mi circonda.

Dev'essersi tuttavia scatenata la ubris divina.
Perché esattamente a una settimana o poco più di distanza da questa mia ben strana dichiarazione di fiducia nella mia auto-significanza, ho incontrato una donna di appena cinquant'anni che di cose da dire ne ha ben più di me.
Man mano che andava avanti nel suo racconto, qualche sera fa, su come sia arrivata in Italia nell'ormai lontanissimo 1998, sentivo di diventare sempre più piccola. Praticamente una nana-neonata, per scherzarci su.

Stringendo sotto le sue braccia forti le bambine avute in giovanissima età (adesso è nonna di due o più nipoti), Ina è riuscita a resistere alla forza centrifuga del gommone che in due ore e mezzo l'ha traghettata dall'Albania alla Puglia.
Era aprile, faceva freddo e loro erano completamente bagnate.
Prima di compiere la traversata, ha venduto la sua casa e con la somma ricavata (comunque una buona parte della medesima), ha pagato il prezzo del futuro migliore, per lei e le sue figlie: otto milioni di lire. Tempo prima era già arrivato suo marito, che stava aspettando il giorno in cui si sarebbero ricongiunti.

Per un soffio hanno rischiato di non coronare il loro sogno: la Guardia costiera (o qualcosa del genere), quella notte, aveva intercettato il gommone che filava come un razzo nell'Adriatico, lanciando l'allarme alle forze dell'ordine di terra.
Disperati, i migranti giunti con lei, avevano tentato di sfuggire alla cattura, invano.
Ina ci ha detto che solo lei e le sue bambine, spinte da qualche demone benigno, erano riuscite a nascondersi, ma che prima di riunirsi a suo marito e agli altri parenti già approdati nella terra della speranza, ci hanno messo diversi giorni.

I primi due anni nel nostro Paese devono essere stati piuttosto duri, ma non conosco i dettagli: è solo una mia supposizione.
Poi sono arrivati a Chieti e via via la famiglia è cresciuta. La nipotina parla il mio dialetto, probabilmente meglio di me.

Della sua storia abbiamo parlato giusto la sera dell'ennesima tragedia dei migranti morti in mare.
Probabilmente dovevo essere qui, in questi giorni, anche per questa ragione.

In un certo senso, perciò, è vero che ho qualcosa da raccontare, ma non di me stessa.

Un'altra sera, forse quella in cui ci siamo conosciute, parlando della crisi, Ina ha dichiarato, tenendo ben dritta la schiena maschile: "Se uno vuole lavorare, lavora. Io ho sempre lavorato, sempre".
Ci credo, ti credo, Ina. Però non hai del tutto ragione, anche se naturalmente rispetto la tua opinione.

Io la forza che hai tu non ce l'ho: non sono partita come te con un gommone alla ricerca di fortuna a molti anni di meno di quelli che ho adesso e non ho vissuto sulla mia pelle il probabile disprezzo che hai dovuto sopportare per la povertà che per fortuna ti sei lasciata alle spalle.
E non ho neanche fatto la Resistenza come i vecchi sopravvissuti che stima il mio amico di cui parlo all'inizio, né sono passata attraverso le privazioni vissute in infanzia dai miei genitori.
Ho avuto, anzi, relativa agiatezza fino almeno ai trent'anni.

Sono diventata donna tardissimo e lo si vede chiaramente dall'età apparente che mostriamo, almeno per ora, tu ed io.
Poi però succede che recuperi in fretta il tempo perso. Il tempo dell'oro.
E tutto assume una luce diversa.

Non sono, certo, ancora in grado di fare un racconto oggettivo, letterario, quasi, di quel che stiamo passando negli ultimi tempi.
Però, se è vero che ho qualcosa da dire lo si vedrà a breve.
Altrimenti, farò bene a tacere. 
E a imparare dell'altro.
Vivendo.

martedì 6 maggio 2014

Destinazione Roma: resilienza vieni a me


Roma, riflesso dal terrazzo del MACRO

Ho scattato questa foto a inizio marzo, in uno dei numerosi giorni di pioggia degli ultimi mesi che speriamo di esserci lasciati alle spalle.
Conservo comunque un ricordo bellissimo di quel momento: io da sola, sotto il mio ombrellino rosso nuovo fiammante, raggiunta qualche minuto dopo da sorella, nipoti e cognato. Roma mi piace molto: sarà caotica, sarà spettinata e troppo spesso sporca, ma continua ad affascinarmi assai. A breve (se andrà tutto bene la trasferta umbra dei prossimi giorni), ci tornerò.

Spero di arrivarci con il giusto clima interiore. Io, in ogni caso, farò di tutto per vivere la mia giornata da ambulante al Mercatino Giapponese del Black Out (in via Casilina) a Roma.

Ne ho scritto su Minime Storie, quindi non mi ripeto.
Volevo giusto rilanciare l'evento (straordinario assai!) anche sul mio blog più palloso.
Amici romani, semplici conoscenti gattofili e/o amanti dello Japan style: passate a trovarmi. Sarò molto contenta di dimenticarmi di tutto il resto chiacchierando con voi.

Mi auto auguro in bocca al lupo. Ne ho bisogno per un sacco di ragioni.
Soprattutto ne ha bisogno la persona più importante della mia vita.
Come vorrei essere capace di dimostrarglielo.
Ce la metterò tutta.
A presto.

domenica 4 maggio 2014

Senigallia e la sindrome (tutta italiana) dell'emergenza continua





Spero di rivedere a breve Senigallia così.
Certo è che da quando abito nelle Marche di dissesti idrogeologici ne ho visti parecchi.
La parte paranoica di me (in uno dei due episodi di Maigret di ieri sera si parlava di tare genetiche) ogni tanto mi spinge a domandarmi: non è che sono io che porto iella?
Poi razionalizzo (come no) e dico: tiè.

In tutti i casi, quando ti trovi molto vicino a un disastro molto poco naturale (lo sappiamo: la portata d'acqua di ieri era eccezionale, ma le ferite alla terra non lo sono affatto e non da adesso), ti rendi conto che a spalare il fango ci potevi essere anche tu, in queste stesse ore.

Oggi ho osservato bene la protezione che hanno imbastito sulla grossa frana che lo scorso novembre si è staccata pochi metri più su rispetto al palazzo in cui abito io: a occhio non mi pare un granché sicura, ma parlo da totale profana.
Poi però sento che è crollato un ponte sullo stesso corso d'acqua, detto simpaticamente Ete Morto, che in un altro punto, un po' più verso la costa, ne aveva rotto un altro causando due vittime nel non lontano 2011.

E mi dico: possibile che a tre anni dal tragico incidente nel frattempo nessuno abbia provveduto a sistemare tutti i valichi sullo stesso fiume?
Sempre Maigret, appropriatamente ieri sera considerava che la vox populi molto spesso è vera. A pensar male, insomma, si pensa ahimè troppo spesso bene.

Per fortuna, il centro storico di Senigallia sembra essersi salvato dalla doppia esondazione (Misa + Cesano), ma ci vorranno diversi giorni prima che si possa tornare alla normalità. Sempre che ci si intenda allo stesso modo sul significato di quest'ultima parola.

Normale non è un Paese che lascia costruire dove non si deve, condannando al disastro prossimo venturo abitanti (poveretti i due anziani vittime dell'alluvione senigalliese. Che triste fine. E per fortuna che ai ragazzi rimasti intrappolati nella scuola in cui va anche la figlia della mia amica Maria Loreta Pagnani non è successo nulla) e titolari di aziende.
Davvero, non se ne può più di sentire la conta dei danni successiva.

Mi colpisce, infine, anche un'altra altrettanto poco onorevole coincidenza. Mentre i senigalliesi lottavano contro la furia delle acque, i malcapitati cittadini romani a passeggio nei pressi di Ponte Milvio tentavano disperatamente di evitare la furia degli ultras.
Mi dispiace: non riesco proprio ad appassionarmi al calcio.
A cominciare dal crollo dello stadio dell'Heysel in avanti (ricordo di un razzo sparato su un bambino o un ragazzo più o meno negli stessi anni), allo sport più amato dai miei connazionali associo immagini di violenza, razzismo, stupido machismo e totale anarchia.

Se fosse per me, il campionato dovrebbe essere abolito.
Ma so di far parte di una minoranza, quindi pazienza.
Però sono veramente stufa di vivere in un Paese che sembra capace solo di passare da un'emergenza all'altra, o che comunque viene raccontato in questo modo da troppi miei cosiddetti colleghi (io ormai non mi sento più una giornalista, se non lo si fosse capito. O forse non lo sono mai stata, al di là del tesserino e del diploma che mio padre mi ha fatto incorniciare).

E insomma. Il discorso sarebbe troppo lungo e adesso non ho voglia di affrontarlo.
Ha smesso di piovere, anche se il cielo è ancora grigio e fa freddo come a dicembre.
Auguriamoci che le temperature diventino più miti, almeno questo.
Forza Senigallia, tornerò presto a visitarti.

venerdì 2 maggio 2014

La formazione continua per i giornalisti e i piani per il futuro. Da tappabuchi


Stiamo cercando casa da comprare. Ne avevamo vista una che andava bene. Forse non benissimo, ma comunque abbastanza da suscitare la nostra attenzione.
E' incredibile come l'essere umano si attacchi anche al minimo segnale di novità pur di scuotersi dalla routine. Perché anche chi non ha un lavoro fisso (in questo momento tout court un lavoro come me) finisce per cedere alle abitudini. Le medesime, da un certo momento in poi, si trasformano, per l'appunto, in tran tran, in "day-to-day-grind", come si dice in inglese.

Ebbene, quella casa sembra che non sarà nostra. Poteva succedere, certo, quindi non vale la pena farne un dramma. Ci proverò.
Oggi, poi, ne abbiamo vista un'altra, quasi per ripicca di aver perso la prima, ma questa, no, non ci è piaciuta affatto.
Tra i piani mentali di questi ultimi quindici giorni in cui mi immaginavo già in procinto di traslocare nella nostra casa, la prima vera nella quale, forse, mi sarei sentita al mio posto, c'era anche quello di cambiare totalmente vita.

Dovendo risparmiare ogni singolo centesimo dall'acquisto ahimè saltato all'eternità, non mi sarei di certo più potuta permettere di fingere di fare la giornalista. Stavo già sognando futuri lavoretti di poche ore come, che so, stiratrice a domicilio, dog o cat-sitter, o qualsiasi altra micra-mansione che mi avrebbe permesso di sentirmi un po' meno in colpa di come mi senta attualmente.

Pazienza. Anche in questo caso non è che tutti stiano aspettando di ingaggiarmi come tappa-buchi (so piantare chiodi e riparare rubinetti, a proposito), ma una riflessione sull'inevitabile necessità di procacciarmi qualche euro per il pane (o la pizza surgelata) che tanto si consuma nella nostra torre in affitto mi pareva opportuna.

Vorrà dire che, nell'attesa del grande e probabile iper-downshifting (non chiedetemi che cosa significa), continuerò a studiare, darò il benedetto esame d'inglese e cercherò di ultimare alcuni progetti più in linea con il mio percorso scolastico e professionale.

C'è però un fatto che mi sta qui, proprio sotto la bocca dello stomaco.
Da quest'anno tutti i giornalisti hanno l'obbligo della formazione professionale. Nei mesi scorsi ho tentato di capire quali fossero i corsi che danno i crediti formativi e finora sono arrivata alla conclusione che siano pochi e... quasi tutti a pagamento.

Il che mi pone un ulteriore problema di coscienza: se già non guadagno un euro (dall'inizio dell'anno non ho ancora emesso una fattura), come mi pago i corsi?
Ed ecco che poco fa leggo un post scritto da una collega, Marina Morpurgo, sicuramente molto più addentro di me nelle cose del mio mestiere, che mi ha assai illuminato.

Preferisco copiarlo e incollarlo qui di seguito:

"Si è aperto un dibattito che la dice lunga sulle condizioni schizofreniche in cui si lavora in questo paese.
Come saprete, la professione di giornalista è ormai in via di estinzione, disoccupazione alle stelle, compensi oltraggiosi, la deontologia professionale considerata un inutile orpello. E se hai più di 50 anni puoi pure spararti, oppure se sei ottimista spuntare le tacche sul muro, in attesa...
della pensione (se non muori prima).

Adesso lo Stato chiede agli iscritti agli ordini professionali la formazione continua, che sarei lietissima di fare anche a 56 anni, se servisse a qualcosa e non fosse una presa per il culo, come lo sarebbe il costringermi a fare corsi per mestieri non più esistenti come il menestrello o la cardatrice di lana.

Di fronte alla assoluta incapacità di tutela della professione manifestata in tutti questi anni, a questo punto ho chiesto di essere gentilmente lasciata morire in pace (posso anche firmare un impegno giurato a non scrivere più articoli, non mi costerebbe nulla), per non aggiungere danno alla beffa.

Come molti colleghi ho cambiato mestiere perché nessuno vuole dei vecchi rigidi rompicoglioni che hanno mille scrupoli deontologici e la singolare pretesa di farsi pagare.

Mi dicono che si saranno sanzioni disciplinari nei confronti di chi non accumulerà 60 crediti in tre anni. Allo stato attuale ci sono corsi di deontologia on line gratuiti da 10 crediti (mi vien da ridere, scusate: imparate la deontologia e poi mettetela da parte), e poi corsi a pagamento. Non ho alcuna intenzione di perdere un mucchio di tempo e di pagare per corsi che non mi serviranno a un cacchio se non ad accrescere la mia frustrazione. Se volete che io segua un corso, insegnatemi a fare le torte o a ricamare, e non insegnatemi cose che la maggior parte dei disoccupati sa fare benissimo – o che è in grado di imparare sul campo, se solo la si fa lavorare.

A questo punto trovo più giusto affrontare le sanzioni disciplinari. Vista la ferocia inaudita con cui sono stati sanzionati colleghi colpevoli di violazioni gravissime, in effetti sono anche curiosa di vedere cosa succede."
 
Rispetto a quanto scrive lei sui 50enni, beh, posso solo aggiungere che lo stesso, tragico ragionamento vale per noi quarantenni, quelli che Monti, non più di un anno fa, ha bollato come la generazione perduta, neanche fossimo tutti Hemingway e Fitzgerald.
 
Beh, io so di essere perduta, in particolare al lavoro che sognavo da quando avevo 22 anni di sicuro, ma in fondo mi dico: il mondo è grande, l'Italia un buco di Paese.
Vediamo come se la caverà di qui a dieci anni. Vediamo chi la saprà raccontare meglio, se i formati continuamente o quelli come l'ironica collega di cui sopra o anche io, ma sì, che un giorno saprò tutto di appretti per colletti e di tubi per la doccia.
 
Che c'entra la foto che ho scelto?
Da qualche settimana ho preso a leggere La storia infinita di Michael Ende, un libro che fu regalato a mia sorella nell'Ottantatré.
L'ho recuperato da casa dei miei genitori con il preciso intento di farmi trasportare lontano, come il protagonista del romanzo, da un sacco di cose.
 
Non sempre riesco a concentrarmi, anche perché, lo confesso, non ho mai amato particolarmente il Fantasy. Eppure è sempre meglio rifugiarsi nelle pagine un po' ingiallite dagli anni, ripescando tra le medesime pure un foglio a quadretti con su vergati alcuni miei antichi esercizi di trigonometria, piuttosto che cedere allo sconforto.
 
No, ora basta.
Perduta sì, ma non nell'orgoglio.
E ora spengo e vado a leggere di Atreiu. E speriamo che riesca a salvare l'Infanta imperatrice.
 
Notte serena, amici.

lunedì 28 aprile 2014

#Fermoattivo e la magia di vivere il presente



E poi, quando meno te l'aspetti, ricevi doni inaspettati.
Ho scattato la foto che vedete sopra da un balcone di una vera casa fermana.
In che cosa si sostanzia quest'ultima, vi starete chiedendo.
Tentando una non facile sintesi, direi che nelle case dei veri nativi di questo luogo aleggia una mistura di antico e di moderno tutta speciale.

Solcando la moquette verde che ricopriva pure le scale, si accedeva in ambienti arredati nei modi più disparati. Ho intravisto poltrone marroni di pelle, sedie e letti inizio Novecento e poi stanze stile b&b anni Duemila. Non ho potuto memorizzarli bene, data la velocità della nostra invasione, ma oltre all'imbarazzo di trovarmi a casa d'altri senza essere stata invitata, provavo anche altre sensazioni.

L'estraneità di cui vi ho parlato un paio di post fa è ancora tutta lì, ma devo ammettere che essere accolti in quella maniera, percepire l'orgoglio delle radici di chi ti mostra il proprio luogo del cuore e sentirsi pure proporre un caffè per cercare di farti restare ancora un po' è stato molto bello.

Ringrazio perciò intimamente gli organizzatori di #Fermoattivo, la tre giorni di passeggiate artistiche per il centro storico della cittadina marchigiana, e, se c'è qualcuno lassù che mi ascolta, grazie a lui/lei/neutro anche per il sole che ha generosamente protetto le persone che hanno esposto en plein air le proprie opere e quelle che si sono soffermate a guardarle, incuriosite anche dai cortili, le piazze e altri angoli finalmente animati di vita.

Su Minime Storie proporrò a breve una cronaca più dettagliata (ho scattato abbastanza foto da ricavarne una galleria, un'attività che mi piace tanto tanto), ma qui volevo solo aggiungere che per una volta ho vissuto pienamente il posto in cui abito ed è stato importante. Per molti motivi.

E anche se adesso sembra di nuovo novembre, non importa.
Ho vissuto e ho condiviso la pienezza del presente con altre persone.
La magia è ancora possibile.

giovedì 24 aprile 2014

Yasmina Reza e Andrea Bajani, due autori da leggere. E rileggere

Lo scrittore Andrea Bajani (e la sottoscritta) alla Biblioteca Romolo Spezioli di Fermo,
foto di Ennio Brilli


Comincio questo post con una domanda autoreferenziale: chissà chi mi mette subito il secondo + su quasi tutti i post, con l'eccezione dello scorso (oggettivamente molto tetro) e di pochi altri. Vedremo che cosa succederà stavolta che ho invece intenzione di parlare degli ultimi due libri che ho letto.

Mi riferisco, in rigoroso ordine cronologico, a Felici i felici, di Yasmina Reza, e a La vita non è in ordine alfabetico, di Andrea Bajani.
Sono molto diversi, non c'è dubbio, ma accomunati, almeno a mio avviso, da un elemento: parlano entrambi di privato, volendo anche di intimità, e di disvelamenti.

Nel caso della scrittrice francese, si tratta, in molti casi di veri e propri smascheramenti: chi ha visto il film ispirato a Il dio del massacro, quello con le due fenomenali Jodie Foster e Kate Winslet che a un certo punto si tirano quasi i capelli, sa che le storie della Reza girano più o meno tutte intorno alle ipocrisie dei comportamenti umani, raccontate però con una feroce ironia e una classe che solo talenti straordinari come lei riescono a esibire con tanta nonchalance.

Nel caso di Andrea Bajani, o per lo meno del libro che ho appena finito, invece, il disvelamento entra puntualmente nei brevissimi racconti che si aprono ciascuno con una lettera dell'alfabeto, in quasi tutti i capitoli ripetuta una seconda volta.
Si tratta, cioè, di un artificio stilistico molto raffinato, che però, sarò sincera, non mi convince sempre.

In alcuni racconti, voglio dire, il punto di svolta nella storia risulta davvero sorprendente e certe volte anche commovente. In altri, invece, l'ho trovato un po' forzato.
Anche nel libro della Reza, però, ho avvertito qualcosa di analogo in alcuni passaggi.
E' come se il desiderio, legittimo e condivisibile, di colpire a tutti i costi l'immaginario del lettore abbia preso un po' la mano a entrambi.

Se non mi fossero piaciuti, in ogni caso, non starei qui a parlarne: non sono obbligata a recensire proprio nulla, perciò, quando lo faccio, parlo in prevalenza di quel che mi piace.
E' solo che, forse, avrei voluto immedesimarmi di più e invece non ci sono riuscita, con tutti e due i libri, se non a tratti.

Mi ha per esempio incantato il punto in cui Bajani descrive la pallina espulsa dalla macchinetta con la chiave che si gira solo dopo che ci metti la monetina, la stessa anche oggi dai tempi della mia infanzia (e della sua: ha quattro anni meno di me, ricorderà anche lui le sedie impagliate con i fili di plastica colorata).

Mi è molto piaciuta la descrizione della lite coniugale della Reza che culmina con lei che si attacca alla schiena di lui come tutte le notti e la facilità con cui la scrittrice riesce a calarsi nei panni dei suoi singoli personaggi, maschi o femmine che siano.

Ho apprezzato molto la lingua di Bajani e la scelta della seconda persona singolare più tipica della poesia, come il medesimo ha spiegato nell'incontro che ha organizzato la biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Concordo con lui anche sulla differenza tra i libri che si leggono tutti di un fiato, e poi si buttano nel cestino o si stipano in fondo alla libreria perché hanno esaurito la loro funzione riempi-vuoto del momento, e quelli che ti viene voglia di riaprire, accorgendoti che hanno ancora molto da dirti.

E infatti il suo l'ho letto e riletto, in certi punti, ma, lo ammetto, perché in qualche caso non capivo dove volesse andare a parare. Sarò tonta io, d'accordo, però un conto è la bellezza e la complessità della scrittura da leggere e rileggere, un altro è la sensazione dell'oscurità che non di rado mi davano i testi scolastici.

Con la Reza, invece, mi è successo che a un certo punto non mi ricordavo più chi era parente di chi, perché all'apparenza sembravano tutte storie staccate e invece erano tutte, eccome, collegate. Se lasci che passino troppi giorni tra un capitolo e l'altro, insomma, c'è il più che concreto rischio che non saprai più orientarti nella storia.
Si tratta, in definitiva, del tipico libro da leggere "tutto d'un fiato", ma se lo fai, è certo che poi non ci tornerai più.

E invece io l'ho riaperto e ne sono stata contenta, perché così ho notato altri dettagli.
Lo stesso ho fatto con La vita non è in ordine alfabetico ed è per questo che ne sto parlando.
Vorrei leggere qualcos'altro di Andrea Bajani, che mi ha colpito per la sua vispa intelligenza. Al pubblico che lo ascoltava direi più che attentamente (secondo me molte signore se lo mangiavano proprio con gli occhi. E' un discreto figliolo, bisogna ammetterlo), lo scrittore che vorrebbe essere marchigiano (ma chissà se non lo dice di ogni regione in cui lo ospitano) ha svelato di vivere a Berlino.

Mentre mi firmava l'autografo (non lo faccio mai, ma stavolta ho ceduto al rito pop), gli ho chiesto come mai questa scelta. Mi ha risposto che volevano fare una prova, lui e la sua compagna con figlia credo adolescente, ma che non è per forza come sembra da qui: non tutto costa meno, non tutte le strade professionali sono aperte. Io non so se credergli, però l'ha detto con un tono molto simpatico, tipico di una persona positiva.

Mi piacciono le persone positive, anche quando mettono alla berlina i difetti nostri e altrui come la Reza (che però non so se lo sia anche lei).
Ringrazio perciò entrambi di essere idealmente entrati a far parte della mia vita.
E aspetto di leggervi ancora.

E voi?

martedì 22 aprile 2014

I riti della Pasqua e la morsa allo stomaco che ritorna

Monti Sibillini, Pasqua 2013
Quest'anno, per la prima volta nella mia vita, non ho assistito alla Processione del Venerdì Santo di Chieti.
L'ho scritto l'altro giorno su Facebook. E invece mi sono appena accorta che non era vero. L'ho saltata anche lo scorso, dal momento che ero a Castelluccio di Norcia, in un'atmosfera degna della Passione di Cristo quasi quanto quella che alligna sulle vie centrali della mia città natale, durante il paio d'ore riservato alla teoria di uomini incappucciati e di simboli del Calvario di Gesù, culminanti nel Miserere di Saverio Selecchy, una musica che dà i brividi.

Personalmente sono giunta a una conclusione che sarà probabilmente considerata eretica tra i miei amici cattolici: i riti della Pasqua mi trasmettono un indicibile senso di morte. E una cupezza livorosa che mi morde lo stomaco.
So bene che dopo (dopo quando?) c'è la Resurrezione, che simboleggia il trionfo della vita (eterna) sulla mortalità dell'uomo. Ma, sinceramente, ciò non mi consola. Affatto.

Non posso negare che il suono dei violini, delle viole e dei flauti che ti sfilano davanti mentre tu sei lì sul marciapiede a congelarti e a orecchiare, non volendo, le ciarle spesso insignificanti degli altri astanti ti strappa al presente, spingendoti ad ascoltare quelle gravi voci maschili che cantano in latino (una lingua, manco a dirlo, morta pure quella). E che, in quel momento, la morsa allo stomaco sparisce e che, tutto sommato, senti che hai fatto bene a tornarci un'altra volta.

L'armonia con la folla adorante dura però solo pochi minuti, perché dopo ti senti ancora più triste. Solitario. E finalissimo.
Accidenti che fregatura la vita, pensi anche.
Perché tutta questa sofferenza, consideri ancora.
Non parlatemi di croce e di riscatto dai mali che ci hanno angustiato più o meno tutti dopo la fine dei nostri giorni, né tantomeno della fine dei tempi, un concetto che mi ha sempre dato un'angoscia immensa.
Da bambina, anzi, ricordo che una sera non riuscivo ad addormentarmi per aver all'improvviso preso coscienza dell'esistenza del nulla.

Se finisce la terra e l'universo, mi domandavo, che cosa resta?
Forse la prima morsa allo stomaco che ho risentito distintamente nelle "vacanze" appena passate l'ho provata proprio quella sera.
Non mi dà nessuna gioia narcisistica, ve l'assicuro, essere così disincantata, quanto a visione della vita e della morte.
A volte penso che quelle donnette che l'altra sera, alla Messa di Pasqua, invocavano Cristo con foga, le eredi di quelle che udivo sgraziatamente cantare quando ero piccola (o le stesse, oggi vecchie davvero, all'epoca vecchie per nascita), abbiano ragione.

Loro un significato alla vita l'hanno trovato.
Loro sono quasi quasi contente di soffrire, perché così si sentono più vicine all'Altissimo.
Io non potrò mai essere così, ne ho la certezza.

Sto anzi meditando da qualche tempo sulla necessità di firmare il testamento biologico.
Intanto lo scrivo qua, a futura memoria: se mi rincoglionisco o divento incapace di intendere e di volere in qualche altra forma che adesso non saprei dire, voglio che mi si dia pace. Va bene anche una martellata, l'importante è che nessuno sia costretto a occuparsi di me, un sacco vuoto ancora pulsante solo di grane per gli altri.

Sono allegra, eh?
Mi dispiace, ma stavolta gira così.
Sono convinta che ci siano molte ragioni per vivere e per vivere bene, comunque al meglio delle nostre possibilità, ma proprio per questo motivo non accetto una religione che mi dica che il senso del nostro passaggio (passaggio, appunto) sulla terra sia comprensibile solo dopo che non ci saremo più o proprio in ragione delle croci che dobbiamo portare nel tempo che ci è dato in sorte.

So anche (non mi fregate, amici preti) che anche per i credenti ci sono molte cose belle: la nascita di un figlio, l'amore per i propri genitori, per dire due valori che naturalmente condivido.
E' solo che non riesco ad arrendermi ai colpi della vita, pensando che, tanto, un domani saremo tutti polvere.

E poi lo ammetto: io alla gerarchia ecclesiastica non do molto credito, perché a mio avviso, salvo pochissime eccezioni, la spiritualità è una dote personale che o c'è o non c'è. Continuo, in poche parole, a vedere ancora troppi Don Abbondio e pochi Fra Cristoforo, intorno a me. Senza contare, tra l'altro, che non capisco perché i ministri di Dio debbano essere, per l'appunto, solo ministri e non anche ministre.

E tuttavia il mio scetticismo verso i culti è democratico: non mi convincono molto neanche le altre religioni. Quasi quasi, anzi, capisco di più quelli che temono l'ira della natura e delle tempeste che può scatenare.

Per poterne disquisire con fondamento, però, dovrei studiarle, cosa che avrei fatto volentieri anche a scuola, se non fosse che il nostro prof di religione ci parlava di dove aveva comprato l'auto nuova.

Con il passare degli anni ho finito per considerare la questione "che ci facciamo su questa terra" un po' sullo sfondo, com'è, tutto sommato, logico che accada a una persona che sta crescendo.
Adesso che mi sto approssimando alla mezza età, invece, ho ripreso a interrogarmi, con un'acredine tutta nuova, sul nonsenso che ci pervade, ma non so ancora dove mi porterà questo percorso. Sempre ammesso che si tratti di un percorso e non di un girare a vuoto.

So che la fede smuove altre corde (le donnette che cantavano sgraziatamente di cui sopra, intendo), ma io, per potermi emozionare davvero, devo anche capire. O lasciare spazio al mio io più profondo, che se ne sta lì, sepolto sotto un fitto cespuglio spinoso, troppo spesso indisponibile ad ascoltare persino la mia voce disperata.

Appoggiata alla parete della brutta chiesa della mia infanzia, mi sono messa a piangere (poche lacrime che ho tentato il più possibile di nascondere), ma non per la commozione.
Ero sfinita dalla lotta che sto conducendo su troppi livelli. La crepa emotiva deve essere stata stimolata anche dall'accento spagnolo del giovane missionario e da quel messaggio con il quale ha chiuso la funzione sulla morte che vince la vita, che, non avendomi affatto persuaso, mi ha dato la botta finale.

Amico missionario, per me non è così.
La morte è morte e basta. E' assenza definitiva. E' buio.
E tu che sei tanto più giovane di me non dovresti consigliare di pensare al martirio dei santi quando una donna, credente, spaventata, ti confessa la sua fragilità.
A lei (e a me non ne parliamo) del martirio dei santi non può fregare di meno, in quel momento.
Ma tu fai il tuo mestiere, in fondo, ed è più facile essere empatici dal pulpito che non a tu per tu.

Però la faccia contrita della vicina che mi ha consigliato di non farmi vedere piangente (come se non lo sapessi da sola) e quella rassegnazione floscia al dolore no, quella proprio non posso digerirla.

Come concludere questo delirio?
Nei giorni passati avevo avuto l'istinto di entrare in qualche chiesa per tentare di fare (provarci, almeno) silenzio e mettermi in ascolto di quest'io inselvatichito.

Credo che passeranno molti giorni prima di riprovarci ancora.
Non me ne vogliano gli amici credenti.
L'ho detto: tolte le donnette che a forza di scriverlo mi stanno (quasi) diventando simpatiche, chi ha fede in qualcosa è più sereno.
Tenetevi strette le vostre fedi più profonde, quindi. Che si chiamino Dio, Allah, Budda, Manitù.

Il resto, in qualche maniera, si scriverà.