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sabato 30 gennaio 2021
Madamatap compie dieci anni... mille di queste pipe!
lunedì 18 gennaio 2021
Paolo Conte, musica (e parole) per i miei piedi. Tutta la vita
"Oggi non ho voglia di patate/ Ogni schfizio non c'è più/ ogni schfizio non c'è più".
E' un verso di "Ma sì, t'a vo' scurdà", una canzone (in un buffissimo napoletano) che ho riascoltato assieme alle altre undici tracce contenute in Parole d'amore scritte a macchina, l'album di Paolo Conte del 1990, colonna sonora dei primi mesi di università.
Naturalmente, era già un po' che frequentavo la musica dell'Avvocato. Scrivo così perché ormai do per scontato che i miei affezionati e sparuti lettori sappiano che ho cominciato ad ascoltarlo in seconda liceo.
Ora posso dirlo (sempre ammesso di non averlo già fatto: soffro della sindrome di zio Paperone quando attacca con i suoi racconti sul Klondike, vi avverto).
A farmelo conoscere, ci aveva pensato un compagno di scuola. Per la precisione: "IL" compagno di scuola di cui tutte noi, chi più chi meno, eravamo innamorate (la chat della classe non dovrebbe accorgersi dell'esistenza di questo post, ma anche se fosse, estica, ormai c'abbiamo tutti un'età).
Quante volte avrò ascoltato Max, con la sua lucidità che non semplifica? Era contenuto in Aguaplano, l'album che il compagno di scuola suddetto, forse, mi prestò addirittura in vinile. Di sicuro ricordo le cassette con la sua bella grafia, che gli avrei invidiato comunque, anche se i miei occhi non avessero dardeggiato cuoricini, paragonandola alle mie inintelleggibili zampe di gallina.
Ho in mente quella volta che con altri compagni di classe ci siamo ritrovati a guardare di straforo, al teatro della nostra città, uno spettacolo di Gabriele Lavia e Monica Guerritore. Credo fosse una tragedia greca: se mi sforzassi di googolarla, potrei risalire probabilmente anche al titolo.
Direi però che tale fatica non sia necessaria, tenendo conto di quanto poco me ne fregasse in quel momento, presa com'ero dal lungo assolo di Max che mi risuonava nella testa, in abbinamento, ovvio, alla gioia provata per la vicinanza con il suddetto compagno.
E anche se mia mamma mi ripeteva: "Lascialo perdere, non gli interessi", io niente. Oltre ad "Aguaplano", l'album doppio che contiene "Max", sempre lui, del resto, mi aveva passato in cassetta anche Concerti, il live che ho letteralmente consumato pure negli anni successivi (ndA del 19 gennaio 2021: trattasi di un falso ricordo: la cassetta di "Concerti" era di mia sorella, ma per associazione io la collego comunque al sognato compagno di liceo).
Direi anzi che ho smesso di farlo solo quando sono usciti Tournée1 e Tournée 2, i mitici cd con le copertine rispettivamente rossa e celeste, usciti in anni in cui facevo una capa tanta a tutti i maschi che mi si avvicinavano nel tentativo (riuscito o meno) di corteggiarmi.
"Eh eh eh, rido perché, a parte lo stile del tuo legale/sono parole tue d'amore scritte a macchina, baby baby/va tanto bene per me". Ho inserito questa canzone in una raccolta personalizzata che ho regalato a un uomo. A parte l'epilogo disastroso di quella vicenda, niente, sarebbe stato impossibile per me non condividere con chi mi piaceva la mia totale venerazione per il baffuto musicista astigiano.
Tutto quello che sarebbe successo dopo, però, ai tempi di "Aguaplano" e di "Concerti" non avrei mai potuto immaginarlo. E meno male. Sennò, sai che noia.
Pochi giorni fa, però, mi è tornato in mente questo disco, forse un pochino snobbato dalla sottoscritta, diciamo dai trent'anni in avanti. troppo presa com'ero dai live di cui dicevo prima e dai confronti tra le varie versioni di Diavolo Rosso (qua c'è il violino, qua i fiati, là di più le chitarre etc etc).
Fatto sta, insomma che, quest'anno, poco dopo il 6 gennaio, giorno dell'84 esimo compleanno del Maestro, mi è apparso come una epifania Pittori della domenica nella raccolta che ascoltavo su Spotify, ed eccomi là, con loro sul ponte, le mogli a casa, a trasudare, loro e me, mille frammenti.
Mi sono rivista nella grande arena dove si tenevano le lezioni del primo anno di Scienze Politiche, affollate come mai più durante tutto il resto dell'università. Ero molto disorientata: Pisa mi pareva un pianeta lontanissimo, lo era davvero, a pensarci adesso, ed io probabilmente lo raccontavo con lo sguardo.
Renè, si chiamava così, un ragazzo riccio con i grandi occhi chiari che avevo affianco chissà a quale lezione. Con lui c'era, penso, la sua ragazza, venivano tutti e due credo da Castiglioncello, in ogni caso una località marina della Toscana. Non so come, non so quando (ma so il perché), gli ho parlato di Paolo Conte. "Non sai che è uscito un altro disco?", immagino mi abbia detto a un certo punto il ricciolino. La volta dopo che lo rivedo, eccolo lì con la cassetta.
Dopo quella volta, non l'ho praticamente mai più reincontrato o, se l'ho fatto, nel frattempo avevo cominciato a stringere qualche amicizia (anche femminile, eh: anche alle amiche ho parlato dell'avvocato, sia chiaro), per cui lui e la sua ragazza sono spariti dal mio orizzonte.
Io però non ho dimenticato il suono di Dragon, identico al ritmo dei molti treni che ho preso, uguale al pulsare del mio sangue in tutti questi lunghi anni.
Curiosamente, proprio da questo Lp è tratto anche Happy Feet, il pezzo scelto da Fabio Massi per la puntata natalizia del suo programma radiofonico Grafite, quando ha chiesto a noi amici di consigliare agli ascoltatori, in un audio di non più di venti secondi, una canzone e/o un libro.
Metti una canzone a caso del Maestro e mi farai contenta, così io. "Musica per i suoi piedi, Madamatap". Grazie ancora, Fabio e Ilaria Gregonelli, co-conduttrice del programma, che va in onda tutti i martedì alle 21 sulla Webradio di Fermo Stazione 41.
Ascoltateli e fate caso alla rubrica L'albero di Grafite, il nuovo progetto lanciato dai conduttori e dalla redazione del programma, per promuovere il dialogo tra letteratura e musica, due arti che ci vanno fin dentro all'anima, grazie ad alcuni, fortunati incontri, come quello che ho fatto io con il "mio Maestro", per tutta la vita.
Parapaponzipò!
martedì 29 dicembre 2020
Una grossa fregatura e Borgo Sud: due libri imperdibili dalla mia terra
Ci sto pensando da giorni, ma niente, non riesco a venirne a capo. Per questo motivo, so già che sarà durissima trovare un titolo a questo scritto, che non è un articolo né tanto meno una recensione.
Però sentivo, sento, che avevo bisogno di parlarne in questa forma, forse per trovare, grazie alla disciplina che sono costretta a darmi quando mi rivolgo a un ipotetico pubblico, una risposta.
A quale domanda?, direte voi.
Eccola qua.
Che cos'hanno in comune Borgo Sud (Einaudi) di Donatella Di Pietrantonio e Una grossa fregatura (Chiaredizioni) di Marcello Nicodemo?
Tanto per cominciare, la città in cui si svolgono le due storie: Pescara, vera e immaginaria. Nel libro di Marcello, c'è anche qualche altro pezzo di costa adriatica e vari passaggi in Campania, regione di origine dei suoi genitori, ai quali il libro, dolente e sincero, è dedicato.
Nel libro di Donatella, c'è anche un po' di entroterra, lo stesso che aveva fatto da scenario a L'Arminuta il bellissimo romanzo di cui il nuovo è per così dire il "sequel".
In tutti e due, poi, appare qui e là anche Chieti, la mia città natale.
Conosco personalmente i due autori, ecco un altro punto che hanno in comune. In entrambi i casi, si tratta di una conoscenza che, per quanto limitata, non lo è non abbastanza perché io possa mantenere da loro il giusto distacco che richiederebbe una recensione.
Ma questo scritto, per l'appunto, non è una recensione ed io posso dire apertamente di provare per tutti e due gli autori una grande simpatia.
Coming out fatto. Andiamo avanti.
Ho letto Una grossa fregatura la scorsa estate, portandomelo via da casa dei miei al termine del mio breve soggiorno in patria.
Ho letto Borgo Sud nel viaggio di andata e ritorno da Vienna a Chieti dieci giorni fa.
In entrambi i casi, li ho divorati.
Sul libro di Marcello non avevo particolari aspettative, ma solo una grande curiosità mista anche a un certo timore. Già dalla prima pagina ho colto qualche elemento autobiografico che mi ha rattristato molto. Il padre del protagonista ha un grave incidente e i lunghi e ben descritti giorni di degenza che ne seguono non sono stati, per me, solo l'ossatura principale attorno alla quale ruota tutta la narrazione, ma qualcosa di molto più personale.
Quando ho aperto il libro di Donatella, mi sono accorta invece che in testa mi risuonava la voce dell'autrice, con la sua bella erre arrotata.
Ci ho messo un po' per ritrovare la mia, per lasciarmi andare, voglio dire, al ritmo della storia. Avendo amato moltissimo L'Arminuta, in questo caso, sì, avevo delle aspettative.
Insomma: avrei bisogno di rileggerli entrambi daccapo per parlarne con maggiore precisione, ma niente, non ce la faccio.
A pensarci bene, è come se avessi subito un incantesimo.
Mi sento un po' come il critico gastronomico del cartone animato Ratatouille, quando assaggia il piatto omonimo che gli ha preparato il topo chef.
Ogni pagina di Una grossa fregatura e di Borgo Sud mi riporta a casa, tra le colline che scolorano nei tramonti rosa, nella cupezza sonnolenta e umida della pianura, tra i capannoni dell'area industriale in disarmo, e poi giù, fino al mare adriatico, tra le palazzine corrose dalla salsedine della riviera.
I personaggi di Donatella e Marcello parlano della mia gente, spesso gretta e calcolatrice come si può essere solo nelle province minime. La violenza, ben tratteggiata in entrambi i romanzi, ecco, quella io personalmente non l'ho vissuta, o, se c'era, non l'ho vista, coccolata come sono stata fino al termine della mia giovinezza (e pure dopo).
La morbida protezione familiare non mi ha però del tutto schermata dalla desolazione rancorosa che sentivo aleggiare attorno a me. Ne avvertivo la presenza con una specie di morsa allo stomaco, la stessa che prende, forse, l'Arminuta quando parla con i suoi genitori e in particolare, in questo romanzo almeno, con il padre, una figura che mi pare quasi di aver conosciuto.
Quella desolazione rancorosa è forte, fortissima, nell'ex marito dell'infermiera bionda del libro di Marcello, un uomo verso il quale si prova da subito una mistura di disprezzo e pena.
Per contrastare e poi neutralizzare quella desolazione rancorosa là, che affonda le radici in secoli di servitù e sfruttamento, occorre molta nobiltà d'animo, ma nei due romanzi si capisce che sono in pochi a possederla.
Ne ha da vendere il papà del protagonista di "Una grossa fregatura", ne ha, a ben guardare, anche Adriana, la sorella dell'Arminuta, che condivide con il primo, almeno in parte, la stessa sorte.
Se e quando leggerete i due romanzi, insomma, non aspettatevi a tutti i costi il lieto fine. Non immaginatevi però nemmeno finali shakespeariani: noi abruzzesi (almeno quelli del teatino - pescarese) siamo comunque dotati di una certa pudica ironia che, se ben esercitata, può diventare anche geniale (vedi quel folle di Maccio Capatonda).
Il riscatto, però, c'è, ve lo garantisco. Bisogna solo coglierlo tra le righe, in particolare ne Una grossa fregatura, in modo leggermente più scoperto in Borgo Sud.
Ecco. Lo sapevo: scriverne mi ha aiutato a schiarirmi le idee.
Adesso posso dirlo: il 2020 è stato un anno parecchio duro, va bene, ma almeno mi ha regalato due libri così.
Grazie agli autori per come sono e per le storie che continueranno a raccontarci. Non esiste miglior cura di leggere pagine sanguigne come queste per gente strenuamente in fuga dalle grosse fregature.
Buon anno di riscatti a tutti noi.
venerdì 11 dicembre 2020
Melisa Erkurt e il futuro dei giovani austriaci di origine straniera
mercoledì 2 dicembre 2020
Un matrimonio riuscito
Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente.
Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.
La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.
La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna.
La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.
Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto.
Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.
Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.
La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.
E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.
Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.
Una volta, però, mi ha scioccato.
Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi.
Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria.
In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.
Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso.
Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa.
Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.
Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.
La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro.
Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.
Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.
Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico.
Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.
Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.
Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole.
Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.
Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".
Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?
L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.
Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo.
La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.
Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum.
Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.
A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.
Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.
E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.
Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.
A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.
Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie.
In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.
Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta.
Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.
Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.
Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.
E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me.