Visualizzazione post con etichetta Fermo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Fermo. Mostra tutti i post

venerdì 20 dicembre 2013

Il mercatino dell'Otto dicembre e la dignità del lavoro. Auguri a tutti

 

Ho scattato questa foto lo scorso otto dicembre, all'imbrunire.
Come (forse) si intuisce, ho trasportato il cesto dei nostri gatti sul banchetto che ho allestito per il primo mercatino natalizio di Fermo. Nella cittadina marchigiana rispettano infatti in maniera molto rigorosa il calendario delle festività cristiane. Prima della festa dedicata all'Immacolata Concezione, per dire, non accendono neanche le luminarie.

E insomma: tra un dubbio e l'altro, alla fine ho pagato una cifra sostenibile per occupare uno spazietto a due passi dalla grande piazza principale e, per l'intera giornata, decisamente umida, mi sono trasformata ancora una volta in ambulante.

A chi mi chiedeva che cosa vendessi e in alcuni casi anche perché, ho spiegato, con tutta la calma che mi è possibile (sono un tipo francamente suscettibile, anche se cerco di nasconderlo in ogni modo) che mi sembrava una buona idea continuare in questa forma di artigianale "direct marketing" che tanta fortuna aveva avuto la scorsa estate.

E in effetti è andata bene anche stavolta. Benché, adesso posso dirlo con tutta sincerità, fare la vita dell'ambulante è davvero dura, soprattutto d'inverno. D'altro canto, ho fatto anche un'altra, educativa scoperta.
In quel mercatino, di persone prestate al mestiere del mercante ce n'erano davvero tante.

Sulla mia sinistra, per esempio, c'erano due coppie di sessantenni, o giù di lì, con i loro oggetti fatti in casa di davvero pregevole fattura. Sono rimasta a osservare diversi minuti ogni singola pallina natalizia ai ferri e soprattutto il meraviglioso paraspifferi con tanto di funghi e lumache cuciti sopra, dal costo di diciotto euro.
Niente, considerato l'amore, la cura e il tempo che la sua realizzatrice deve averci messo. A fine giornata, però, quel bellissimo oggetto era rimasto invenduto e io posso assicurarvi che se avessi avuto qualche denaro in più l'avrei comprato.
Pensate, anzi, a quanto costa la stessa cosa se la prendete in uno dei quei negozi di artigianato locale o pseudo tale.

Idem per le bellissime agendine di carta crespa confezionate una per una dall'altra signora sessantenne, lo sguardo vispo e il marito molto simpatico, un elettricista disoccupato.
Quest'ultimo usa il suo tempo libero per fare degli orecchini molto fini, piccini e delicati, più facilmente smerciabili, certo, ma venduti a prezzi talmente bassi che dubito che il ricavato gli basti a coprire le spese dei materiali e del tempo lavoro che ha dedicato a ognuno di loro.

Di fronte a me, poco più su, c'era una signora russa, della Crimea per la precisione, la tipica struttura di capelli a cofano e la faccia di chi ha molto sofferto molto frequente tra queste signore dell'Est Europa che vediamo assai spesso in compagnia di anzianissimi connazionali.
Con lei c'era una ragazza dagli occhi di ghiaccio e una treccia da dottor Zivago, che continuava a sferruzzare con il suo uncinetto piccolissimi sotto bicchieri e presine varie.
Anche il loro banchetto era minuscolo, forse persino più del mio.

Mi sono avvicinata ai loro oggetti e ho comprato, esattamente come avevo fatto con gli orecchini fatti dall'elettricista. Anche in questo caso perché il prezzo era molto basso. Anche in questo caso, infatti, ho pensato che gli stessi prodotti venduti in uno dei negozi sfavillanti di qualsiasi centro urbano costerebbero tre volte tanto. Almeno.

Alla mia destra, invece, c'era un bancaccio enorme, pieno di cineserie, gestito da uno strano trio di personaggi, un'italiana sporca e puzzolente, i capelli unti e gli occhi d'acqua, e due uomini giovani con i denti già marci, forse pakistani. Ogni tanto dal loro banco partivano dei fasci di luce stroboscopici e una musica chiassosa e di bassissima qualità sonora forse prodotta proprio da uno dei loro oggetti in vendita. Sul filo sopra al banco una schiera di quelle scimmiette che imperversavano anche la scorsa estate sulle spiagge.

Non ho idea quanto abbiano incassato, ma posso assicurarvi che erano molte le persone che si fermavano da loro, qualcuno per le scimmiette, qualcun altro per quegli aggeggi stroboscopici, altri ancora per degli orribili fiori finti.

In ogni caso, era chiaro il motivo per cui il grosso dei passanti era attratto dal loro banco: il bassissimo costo che però, in questo caso, era anche sinonimo di bassissima qualità.
Dubito insomma che i grossisti di tutta quella paccottiglia vendano sottocosto ai dettaglianti.
Noi ambulanti per caso (o sarebbe meglio dire per costrizione) rischiamo invece di rimetterci o di andarci solo a pari.

Detto questo, per me che ho studiato ma sto avvicinandomi un passo alla volta sempre di più al baratro della miseria, è stata una lezione di vita sentirmi dire, a fine giornata, dal pakistano con gli occhi di brace e l'alito di curry: "Hai lavorato?".
E' come se avesse capito tutto, è come se in quelle poche ore passate l'uno accanto all'altro, si fosse creata una sorta di solidarietà da disperati o simil-tali, piena alla fine della dignità di chi comunque non è stato a grattarsi la testa o a battersi il petto, ma ha comunque, eccome, lavorato.

Sì, caro pakistano. Quella sera ho lavorato e sto continuando a farlo, come posso, cercando di non smarrire mai la fiducia nel futuro.
Non è facile, ma è proprio vero che l'istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi altro sentimento.

Stamattina, poi, sono stata contentissima di prendere altri due ordini da una mia cara amica che non sentivo da tempo. Adesso anzi corro a farle la spedizione. Mi cambierò, truccandomi un po', e andrò alla posta. Con tutto l'orgoglio segreto di chi ha capito che bisogna lottare. Sempre.
Come sta facendo la mia magnifica mamma anche in questo momento.
A lei ho dedicato, non a caso, il mio libro.
A voi che mi state leggendo, dico grazie. E Buone Feste.
Ce le meritiamo.

giovedì 5 dicembre 2013

The Suit a Fermo, la vita oltre la tragedia grazie a Miriam Makeba



Davvero piacevole The suit, lo spettacolo di Peter Brook, Marie-Hélène Estienne e Franck Krawczyk che ho visto ieri sera al Teatro dell'Aquila di Fermo.
Non so dirvi se c'erano imperfezioni tecniche (non sono una critica teatrale), ma posso solo raccontarvi dell'atmosfera, resa lieve dai colori accesi della scenografia e dei costumi, e anche dalla leggiadria di Matilde, detta Tilly, il personaggio femminile protagonista di quella che in verità sarebbe una tragedia della gelosia, ma che invece finisce per trasformarsi in un inno all'amore e alla vita.

Non ho idea di come si chiami la ragazza sudafricana che aveva le lacrime agli occhi quando si sono accese le luci a fine spettacolo. Sulla cronaca della prima delle due serate, pubblicata da un quotidiano locale, ho visto che le hanno attribuito il nome della curatrice dell'opera andata in scena per la prima volta nel 1999, con il titolo Le costume.

Non sono certa che abbiano ragione, ma in ogni caso ho trovato assai credibile quel che avrebbe detto l'affascinante attrice, ossia di essersi completamente calata nella parte.
Del resto, bastava vederla cantare Malaika di Miriam Makeba per capire le ragioni della sua commozione.

Sarà che l'età mi sta rendendo sempre più malinconica, in ogni caso, stamattina, leggendo la storia di Mama Africa, com'era chiamata la voce simbolo della lotta all'Apartheid, e soprattutto scorrendo il testo del brano riproposto ieri sera in scena, mi sono scese un po' di lacrimucce.

E a proposito: visto che ho capito quasi tutto senza leggere i sovratitoli, giacché ci sono, faccio un ulteriore esercizio traducendo nella nostra lingua (nel modo meno scolastico possibile) il testo che scorre dopo le note biografiche della Makeba, in swahili e in inglese.

Prima si sente Miriam che dice:
"Signore e signore, questa canzone viene dalla Tanzania: è una canzone in Swahili, una canzone d'amore, e dice semplicemente 'Malaika, nakupenda Malaika', che vuol dire solo 'ti amo, mio angelo'".

E poi comincia a cantarla:

"Angelo, io ti amo, angelo (due volte)
vorrei sposarti, mia fortuna
vorrei sposarti, sorella
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte,
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
La mancanza di denaro sta affliggendo la mia anima (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma voglio sposarti lo stesso, angelo (due volte)
Uccellino, ti sogno, uccellino mio (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
Angelo, ti amo, angelo (due volte)
 E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
voglio sposarti, angelo
voglio sposarti, angelo

Sotto vi riporto un'altra versione di Malaika, con una Miriam Makeba giovane e splendente, molto simile alla bella attrice che ieri ho avuto l'onore di vedere da molto vicino.





Adesso starà allietando gli angeli e gli uccellini, ne sono sicura.
Grazie, a lei e ai suoi giovani e bravi discendenti.

Aggiornamento del 6 dicembre:
Giusto ieri sera, mentre mi preparavo ad andare a dormire, ho scoperto che Nelson Mandela l'ha raggiunta da qualche parte. Ed è incredibile che abbia acceso la radio nell'esatto momento in cui stavano dando la notizia.
Madiba è entrato, in fondo, di recente a far parte anche della mia storia, intellettuale ed emotiva.
Sono contenta di averlo conosciuto un po' meglio anche grazie ai rapporti che ho stretto con i miei giovani insegnanti sudafricani.
Spero proprio che l'umanità non ne dimentichi lo straordinario passaggio su questa terra.

giovedì 21 novembre 2013

Diciotto anni per la ripresa in Italia: andiamo oltre la paura

La ripresa italiana secondo Nomisma

Diciotto anni sono una bella età. Si prende la patente, si può votare. Fortunati i bambini italiani che stanno per venire al mondo, quindi. Infatti, se tutto andrà secondo le previsioni di Nomisma, la società di studi economici di Bologna che da oltre trent'anni analizza e documenta le dinamiche di sviluppo locale e internazionale, dalla ripresa effettiva dell'Italia ci separano ancora diciotto anni.
Ai miei nipoti, 6 e 8 anni in questo momento, andrà ancora bene: supponendo che staranno lasciando il mondo dell'istruzione giusto in quegli agognati giorni, dovrebbero riuscire a trovare adeguata collocazione. Si togliessero però dalla testa la prospettiva di un altrettanto adeguato stipendio.
Date un'occhiata al grafico sopra riportato: vedete a destra la cima della linea blu spezzata (per la precisione, precipitata nell'angolo acutissimo giusto nell'anno che si sta chiudendo)? Se ci fate caso, si trova esattamente alla medesima altezza del picco registrato nel 2007.

Come a dire che tra diciotto anni torneremo agli stessi livelli che avevamo quasi sette anni fa. Insomma, stiamo sereni (il bolognese Romano Prodi sarebbe fiero di me): avendo già toccato il fondo, più in basso di così non si può andare.
O meglio, non si dovrebbe.

Sulla crisi oggi sappiamo di tutto e di più e se non siamo completamente sconsiderati, è bene ascoltare le (cosiddette) cassandre che ci consigliano di rispettare i vincoli di Europa 2020.
Solo in questo modo, infatti, riusciremo a evitare ai miei nipoti e quelli che stanno venendo al mondo giusto adesso di fuggire verso lidi migliori, sempre che nel frattempo non li abbiano già trascinati via dall'Italia quelli che li hanno messi al mondo.

Perché, ahimè, per i diciottenni di oggi e per i loro genitori, zii e fratelli maggiori, il presente è davvero drammatico, come hanno illustrato più o meno tutti e quattro i relatori che hanno preso parte alla conferenza inaugurale dell'anno accademico dell'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente (in sigla, Utete) di Grottazzolina, un ridente paesino in provincia di Fermo.

Il tema conduttore di tutti gli interventi era "Una finestra sul futuro. Il territorio fermano verso Europa 2020" e, tolta la prima mezz'ora dedicata a rivangare i lustri del passato, il resto è stato una sorta di dotto appello alle energie locali e nazionali per una virata decisa verso un ripensamento complessivo del nostro sistema socio-economico.

Gli applausi più vibranti sono andati all'intervento del sociologo Massimiliano Colombi, ma personalmente ho trovato molto illuminante quello successivo di Marco Marcatili, analista economico e project manager di Nomisma, il quale mi ha gentilmente elargito le sue slide.

Amici miei, ha detto fuori dai denti il giovane studioso, di che cosa stiamo parlando quando diciamo che si intravvedono segnali di ripresa? Che cosa ce ne facciamo del + 0,7% previsto per il 2014? E via via dell'1,1 del 2015 e dell'1,4 del 2016, anche considerando che staremo comunque sotto, anche se di poco, la media europea prevista negli stessi anni?

Di quel che accadrà dopo il 2016 ho già accennato all'inizio, ma è chiaro il problema posto da Marcatili: la ripresa attesa di qui a cinque anni non si tradurrà in un miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza delle famiglie italiane né in un aumento di redditività di una buona parte delle imprese nazionali, troppo piccole e troppo poco esportatrici.
Come uscirne? That is the question.

Qualcosa bisognerà pur fare, logicamente.
Per esempio, mettere un po' d'ordine e chiarezza dentro di noi. Un po' come ci succede dopo una separazione non voluta, un lutto o un qualsiasi altro evento che ci ha mandato "in crisi".
Nelle slide che Marco ha mostrato alla platea forse un tantino attonita del piccolo teatro di paese, si leggevano parole come "dai beni privati ai beni di interesse collettivo (commons)", "politiche di sviluppo rivolte ai luoghi che abitiamo", "partecipazione delle comunità (civile e imprenditoriale)", "riscatto della qualità dell'azione pubblica", "città in cerca di economie, ma economie in cerca di città".

Insomma, ha detto l'analista economico, cominciamo intanto con il pronunciare questa serie di paroline magiche come per riabituarci al suono di un diverso modo di fare politica ed economia. Poi andiamo più nello specifico. Come si riporta al centro l'interesse collettivo?

Per esempio, eliminando le barriere architettoniche dalle nostre città, mettendo in sicurezza il nostro patrimonio storico-artistico, curando l'estetica delle nuove costruzioni e di quelle antiche.
In termini ancora più pratici, dove trovare il denaro per ridarci una verniciata (e non solo quella) di credibilità internazionale? Creando partnership pubblico-private, utilizzando un approccio più europeo nelle nostre iniziative, valorizzando le professionalità migliori.

Quest'ultimo aspetto, peraltro, porterebbe notevoli benefici alla marea di bravissimi connazionali che lottano per non andarsene dal nostro Paese: pensiamo solo agli archeologi, da una parte, e agli architetti, dall'altro. Quanti di loro sono pressoché a spasso, mentre potrebbero dare un notevole contributo per la sacrosanta valorizzazione di un patrimonio che tutto il mondo continua a invidiarci?

Le slide passano poi a mostrare una serie di numeri, non tutti intellegibili senza un'adeguata conoscenza economico-finanziaria, ma abbastanza chiari in un punto: se investiamo in risorse energetiche rinnovabili, se abbattiamo, detto diversamente, gli sprechi di calore, acqua ed elettricità, produciamo occupazione e crescita del Pil.

Oltre ai numeri, parlano infine le immagini di un progetto di riqualificazione prospettato per un quartiere di Modena, oggi un ammasso di fabbriche in disuso, domani un luogo pieno di verde e di case a basso impatto ambientale. Perché questa trasformazione sia possibile, però, è necessario il consenso della popolazione che deve andarvi ad abitare, magari attraverso un'adeguata politica di bassi prezzi di compravendita o di affitto. Senza un coinvolgimento della società civile, in sostanza, nessun progetto è credibile: diversamente, continueremo ad assistere alla costruzione di casette (casacce e casone) spesso destinate a restare vuote in zone ad alto rischio idrogeologico, come quelle che si vedono dal treno ahimè ormai su ogni piccolo fazzoletto di costa adriatica.

L'ultima osservazione, naturalmente, era mia, ma davvero, ascoltare l'intervento di Marco Marcatili mi ha fatto scattare qualcosa nel cervello e nel cuore: bisogna fare qualcosa, accidenti.
Bisogna aiutare quelli che verranno dopo di noi a non buttare via l'energia degli anni migliori.
Come?

Intanto, come ha scritto il project manager, ficcandosi bene in testa che l'Ue non è un bancomat e che per non fallire il traguardo del 2020, bisogna fare davvero sul serio. Il che significa che urge impegnarsi nella ricerca di vere alleanze tra i singoli territori, oltre i campanilismi e le recriminazioni localistiche che hanno davvero fatto il loro tempo.

In concreto, ci aspettano due scadenze molto più vicine di quel che sembra: l'Expo 2015, innanzitutto, da vivere non come vetrina per nani (metaforicamente i piccoli paesi che compongono non solo il Fermano) e ballerine (le aziende, pochissime, che danno lustro alle micro-realtà locali), bensì come luogo per catturare flussi permanenti di turisti e visitatori alla ricerca di qualità in ciò che vedono, mangiano, usano e acquistano.
In secondo luogo, il famigerato Ue2020, da prendere come data per suggellare le nuove alleanze strategiche di tipo "glocale", sotto l'ombrello di un'architettura finanziaria sostenibile per tutti.

Quest'ultimo traguardo si realizza tenendo d'occhio la domanda sociale e ponendosi, se si è amministratori pubblici, come "accompagnatori" degli interessi collettivi piuttosto che come "proprietari" degli stessi.
Un discorso simile va fatto anche per le imprese, che devono abituarsi a "co-progettare" la domanda di beni e servizi, anziché utilizzare i propri denari in incupenti colate di cemento.

Ce la possiamo fare?
Secondo me sì, anche se non sarà facile. L'unica arma che abbiamo sapete qual è? La paura della fame, niente affatto metaforica, che potremo fare proprio noi (plurale maiestatis, anche) che non abbiamo goduto, se non nei nostri verdissimi anni, di un benessere che ci meriteremmo, considerato quanto abbiamo studiato e quanto abbiamo investito per essere cittadini, non solo consumatori.

Ho davvero molta strizza, lo ammetto. Ma fare i conti con questo sentimento, impegnandoci oltre ogni ragionevolezza, lo dobbiamo soprattutto alle giovani generazioni, che hanno ancora meno colpa di noi per lo sfascio che stiamo loro consegnando.

Diamoci dentro, insomma.
Grazie a Marco Marcatili e agli altri trentenni come lui per il loro prezioso lavoro.
Il presente è nostro: facciamoci sentire.

giovedì 31 ottobre 2013

Viaggio nella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo: che esperimento!



Bando alle insicurezze e alla vergogna e vai, mi butto con un nuovo esperimento.
Di che cosa sto parlando? Del video che ho ricavato dalla mia seconda (anzi terza) partecipazione a Storie da Biblioteca, il concorso di scrittura e/o fotografia organizzato dall'Aib (Associazione italiana biblioteche) Marche, in collaborazione con l'associazione culturale Racconti di città e Simplicissimus Book Farm.
Sono piuttosto sicura di non aver vinto né per il racconto Il lavoro e il corpo che potrete ascoltare (anzi: sarete costretti ad ascoltare, scorrendo la galleria) né per la fotografia. Di solito l'opera prima è sempre più fortunata della numero due (alla terza l'ansia da prestazione dovrebbe essere già stata metabolizzata. Quindi vediamo come andrà l'anno prossimo!).
Non importa: sono felice di aver passato altre quattro ore tra i libri, stavolta a Fermo, la città in cui vivo ormai da più di quattro anni. E ancora di più sono orgogliosa di aver trasformato un'esperienza in fondo privata in un momento di condivisione collettiva di un luogo, la Biblioteca civica Romolo Spezioli, di una bellezza davvero rara.
Approfitto del mio blog per ringraziare ancora una volta Silvia Seracini, la coordinatrice del concorso, il gentilissimo personale della biblioteca di Fermo, i partecipanti alla seconda edizione e ogni singolo dettaglio finito sotto la mia fotocamera, studenti compresi. A quest'ultimo proposito, voglio aggiungere giusto un caloroso in bocca al lupo a loro: vi prego, cambiate questo Paese. Noi quarantenni, per quanto possibile, cercheremo di starvi dietro.
E infine, a voi che passerete di qui, buona visione e ascolto... e abbiate pietà della mia vocetta!

giovedì 24 ottobre 2013

#ISPF2013 + Library, a place for people: il mio video!



E oggi bis alla Romolo Spezioli di Fermo... se non vado errata, anche qui il tema da raccontare per foto o parole, o con tutte e due, è sempre il lavoro. Spero di non farmi prendere dallo spirito polemico o, peggio, depresso. In ogni caso, una sfaccendata come me non poteva non partecipare. Staremo a vedere. Tornate da queste parti tra qualche giorno, se avete voglia. In generale. Di sapere come sto. Perché se tenere un blog è anche una questione di narcisismo, non è solo questo. Grazie a chi l'ha capito e a chi lo capirà. Bonne chance a noi.

giovedì 18 luglio 2013

Riti propiziatori di vario genere contro la iella


Ci siamo: l'estate è esplosa, finalmente, ma come spesso è successo anche in passato in analogo periodo, l'afa è ancora molto limitata. Stamattina, per dire, al mare si stava da dio e confesso che non me ne sarei mai voluta andare via. E però, come ormai stra-noto per i pochi amici che mi seguono anche qui, il giovedì è il giorno del mercatino estivo qui a Fermo e siccome ho deciso di partecipare giusto nel mese che mi ha dato i natali, mi tocca andare ad allestire. Tra un'oretta circa, mi caricherò dunque di banchetto, sedioline e poche altre carabattole e andrò a rioccupare la mia molto contenuta postazione.
Solo a fine esperienza, ossia tra due giovedì, è probabile che tirerò un bilancio di un'esperienza che mai avrei pensato di vivere. Come già accennato non so più se qui, su Minime Storie o da qualche altra parte (parlo molto, scrivo un po' meno, ma comunque comunico!), sono soddisfatta di come sta andando, sia in termini pratici (c'è molta più gente di quanto pensavo incuriosita dal mio libro), sia da un punto di vista umano. Si fanno incontri interessanti (non tutti, ovvio) e si ascoltano storie minime (e quando mai!) che mentalmente mi vado appuntando.
C'è tuttavia un retro-pensiero dal quale non riesco a liberarmi completamente.
Tengo le dita incrociate e spero.
Stamattina, certo, la radio isolata da una pessima, diabolica interferenza locale m'ha fatto brutto. Detto in italiano corretto, mi è sembrato un presagio di malasorte. Siccome però sono una persona razionale, ho fatto debiti scongiuri interni e sono scesa in spiaggia... dove un poveraccio sembra che abbia perso la vita giusto a pochi metri da noi, abbastanza comunque perché non riuscissi a vederlo.
Mortacci a voi brutti gufi che insidiano la mia ricerca di tranquillità. Mia, peraltro, solo indirettamente.
Una volta scesa in strada, comunque, avrò il mio bel da fare e mi sarà più facile tenere a debita distanza uccellacci e presagi di malasorte.
Insomma: vado.
Come definitivo rito propiziatorio, linko qui una canzone del mio Paolo (Conte), molto in tema con la stagione:





Chips, chips...

giovedì 11 luglio 2013

Io come il dottor House? Ma figuriamoci

Brevissimo rilancio del video montato al volo per il secondo giovedì da ambulante:



Vorrei raccontarvi di più, non tanto del video (l'ho fatto diffusamente su Minime Storie) quanto della partenza per Londra di Guido Mallardi ed Elisa Campofiloni, la giovane coppia di Fermo che ha creato l'Accademia professionale di musica, frequentata da mio marito lo scorso anno.
Vorrei riempire la prossima ora che mi separa dal mercatino estivo con altre parole per non pensare troppo all'esame diagnostico che dovrebbe cominciare a minuti.
Non aggiungo altro, invece.
E lascio scorrere tutto. Come il dottor House costretto a causarsi un colpo per vincere le allucinazioni provocategli dal vicodin. No, sto esagerando.
E' solo che non è il momento di cedere all'emotività.
Come vorrei essere sempre in grado di orientarla, come sto facendo adesso.
Forse sarei un mostro, o è più probabile che sarei semplicemente un'altra persona.
Tant'è. Questa sono. Come direbbe Popeye, io sono quello che sono e questo è tutto quello che sono.
In bocca al lupo, mamma.
In bocca al lupo, Guido ed Elisa.
Auto-in-bocca-al-lupo a me.

giovedì 4 luglio 2013

I dubbi della novella ambulante... bricolageur!



Ed eccoci qua: oggi comincia il mercatino di Fermo del giovedì, da ben trentun anni appuntamento fisso dell'estate di questa piccola città marchigiana.
Mai avrei pensato di prendervi parte anch'io, un giorno, ma la vita è strana, io lo sono altrettanto, perciò ok: tra poche ore mi trasformerò in ambulante.
Per vendere che cosa? Ovviamente il mio libro, inserito dall'organizzazione come "opera dell'ingegno" (meno male), sezione bricolage. In un certo senso, è vera anche questa seconda parte, dal momento che Che gatti è un'autoproduzione. Che poi esiste (eccome) il bricolage di qualità: da frequentatrice assidua del medesimo mercatino e di vari altri che girano nelle piazze della zona, ho avuto modo di vedere (e di acquistare) oggetti di artigianato veramente originali. Quindi ok: sono una "bricolageur", ammesso che esista questo vocabolo.
Non lo nascondo: un pochino d'ansia ce l'ho, non tanto (non solo) per la comprensibile paura di fare un buco nell'acqua totale, quanto per le eventuali spiegazioni che mi sentirei tenuta a dare ai conoscenti che mi hanno incontrata in contesti totalmente diversi.
E del resto, chi me l'ha chiesto? So bene che è una mia libera scelta.
Avevo solo bisogno di scriverlo qui, in questo spazio che continua a essere semi-segreto, nonostante abbia smesso da tempo di nascondermi.
Aggiungo giusto una chiusa finale, ispiratami dalle lezioni di inglese degli ultimi tempi.
Ho scoperto il verbo (presumo annoverabile tra i cosiddetti phrasal verbs) to question oneself, che vuol dire essere insicuri per qualcosa, sentirsi incerti di qualcosa.
Ecco: di fronte all'avventura che sto per vivere, I'm questioning myself if it is a good idea...
Anche chi non sa l'inglese, può intuire che cosa intenda.
Ripeto. Ci sono. Ci sarò e conoscendomi maschererò la "niggling" ansia (un aggettivo su cui riflettevo poco fa, preso dall'interessante debutto letterario del mio giovane insegnante sudafricano... ieri ho scoperto che ha solo ventinove anni. Beato lui), che non sono certa (aridaje) di aver capito.
Chiacchiererò e sorriderò, come faccio di solito, tormentandomi forse le unghie (che ho colorato apposta per tenerle sotto controllo) o sgolandomi, semplicemente.
Sono fatta così, a quest'età dovrei conoscermi, ormai.
Non mi resta che farmi un auto-in-bocca-al-lupo, sperando che la pioggia incombente si sfoghi ora... o dopo mezzanotte! Altrimenti poveri i miei lavori di bricolage...

lunedì 19 novembre 2012

Andare avanti, oltre le nuvole basse


Il paesaggio dietro la calza a rete (in verità si tratta di una zanzariera ormai fatta a brandelli dalla gatta Bice, che non so perché non abbiamo ancora rimosso) è solo un pezzetto di quanto ammiriamo dalla solita torre fermana. Ho scelto questo scatto per non riproporre il consueto (stupendo) tappeto di colline che ammiro tutti i giorni, tolti quelli di nebbia o nuvole basse, comunque si voglia chiamare la cappa che avvolge non di rado Fermo durante la brutta stagione. Vi dirò che certe mattine immerse nel bianco lattiginoso non sono affatto male, anche se, di certo, il cuore si allarga di più quando "calienta el sol".
E comunque, il presente post è un tappabuchi tra il precedente non proprio allegro e i prossimi che temo non saranno tanto più frizzanti.
Ho riflettuto nei giorni scorsi, aiutata in questo dalla scrittura autobiografica e da una vera amica.
Curiosamente, mi scopro sempre di più affine alle persone di vari anni più di me di quanto non mi senta ai miei coetanei. E dire che per molti aspetti sono assai infantile. Infatti amo molto stare anche con i bambini. Chissà che dietro la mancanza (diciamo meglio: debolezza) delle amicizie nella fascia d'età cui appartengo non si celi anche un mio non confessato desiderio di mantenere un certo distacco dalla realtà.
Potrebbe essere.
D'altronde, il presente fa schifo e chi lo nega un po' m'infastidisce.
Con ciò non voglio denigrare l'importanza del sentimento della speranza: solo continuando a nutrirlo, si attivano virtuosi meccanismi anti-depressivi.
Sto soltanto dicendo che con i coetanei mi viene più naturale fingere perché leggo nei loro occhi l'identica disperazione che traspare dai miei, ma mentre io non ho paura di tirarla fuori, anche per riderne su subito dopo, il grosso delle persone (tra i trenta e i quaranta, anno più anno meno) che conosco preferisce appiccicarsi in faccia sorrisetti di circostanza, per smorzare una rabbia che forse temono di non saper governare.
Beh, io invece penso che arrabbiarsi ogni tanto faccia bene, per evitare d'impazzire di frustrazioni indotte.
Poi, certo, non bisogna fare due palle così agli altri (perché sennò poi è logico che scappano), ma perserverare in un percorso di auto-consapevolezza sui propri bisogni/aspettative, quello sì.
Detto ciò, sto per ingoiare l'ennesimo, indigesto, rospo relazionale (chiamiamolo così), dimostrando a me stessa (ma chi lo sa) di non essere la polemica adolescente del liceo.
Me lo disse una volta la prof di greco, commentando non so quale mia uscita. In analoga circostanza lo ribadì anche la prof d'italiano, chiamandomi "pungente".
E d'altra parte sono nata sotto il segno (veramente di m.) del cancro: qualche pizzicata ogni tanto non riesco proprio a trattenerla.
Per fortuna, ho l'ascendente leone, un segno forte e combattivo (a pensarci bene è un mix davvero micidiale: sono una grandissima scassapalle pure astrologicamente parlando).
Sia come sia, bisogna andare avanti. Non c'è scelta.
E domani la cappa sparirà. E se non fosse, sognerò di essere a bordo di un aereo, lontano lontano, molto lontano (citazione contiana, manco a dirlo), da qui.

domenica 11 novembre 2012

Un video amatoriale (issimo!) scaccia-pensieri

E meno male che ho steso i panni dentro: piove orrendamente, come credo in quasi tutta Italia.
La giornata uggiosa dovrebbe ispirare pensieri nefasti ed è ben per questo che reagisco linkando al mio primo video realizzato con la sony hd (faccio pubblicità, ebbene sì) dedicato al mercatino estivo di Fermo.
Una roba più amatoriale di così non potevo farla, ma tanto, in un mondo di dilettanti, perché mai dovrei essere la sola che si censura? E in ogni caso, lo ribadisco: è un video scaccia-pensieri, a suo modo, nelle sue evidenti imperfezioni, persino (pateticamente) poetico.
E poi Paolo è proprio telegenico: e non lo dico perché sono di parte (su facebook seguirebbe faccina sorridente).
Buona visione (e per i non fermani: buona occhiata sulla bellissima piazza del Popolo, cuore del centro storico della cittadina marchigiana, uno dei molti gioielli di questo povero e depresso Paese).





lunedì 29 ottobre 2012

Sentirsi come un albero d'autunno


Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.

lunedì 24 settembre 2012

Come Jane Fonda... più o meno


Oggi, purtroppo, ho la febbre. Un febbrone da cavallo, penserete voi. Per quanto mi riguarda è proprio così, dal momento che mi ammalo molto raramente. Ho... trentasette e uno, udite udite, ma è come se fossi a un passo dal delirio. Temo peraltro di esserlo già abitualmente, ma lasciamo andare.
La foto che vedete in alto, del resto, potrebbe già bastare a capire in che condizioni sono.
Tempo addietro ho realizzato che tra mia madre e la Jane Fonda regina del fitness degli anni Ottanta c'era una certa somiglianza. Chi mi conosce superficialmente ravvisa a sua volta una certa comunanza tra la prima e la sottoscritta (e d'altra parte sono figlia sua e a chi altri potrei mai rassomigliare?).
Sillogisticamente, credo, ho anch'io qualcosa della Jane. Preciso subito che non si tratta delle gambe (le mie sono, diciamo così, più forti e un tantino più corte).
Quel che più ci accomuna, in ogni caso, è proprio la passione per la ginnastica, rinvigoritasi in me da quando vivo nelle Marche, dopo una lunga fase di stop che mi aveva appesantito nel fisico e nell'anima, e via via mai più lasciata. Da un paio d'anni, in particolare, frequento la palestra simil-comunale di Fermo (la cosiddetta palestra del Coni, anche se in verità è gestita da una cooperativa che mi ha dotata persino dell'asciugamano "aziendale"), che mi piace assai per l'ambiente assolutamente nazional-popolare.
A frequentare i corsi di ginnastica, siamo donne di tutte le età e immagino ceto sociale, dai 14 anni alla sessantina e passa. La frequenza scema con l'avvicinarsi della bella stagione o del Natale, però le assidue come me restano comunque numerose.
Non so spiegare perché, ma quando sono lì che salgo e scendo dallo step o dopo, quando guardo le forti luci al neon mentre ci massacrano con gli addominali, è come se vivessi un processo mistico, come se finalmente uscissi da me stessa per diventare tutt'uno con il tappetino, confortata e stimolata dalle tante gambe all'aria che vedo intorno a me.
Mi piace mescolarmi alla massa di donne in tute da ginnastica e osservare, tra una pausa e l'altra, il gruppo delle ragazzine del liceo, le più carine del corso, che chiacchierano tra loro canticchiando le brutte canzoni dance che ci danno il ritmo degli esercizi e poi conversare di inezie con una giovane laureanda con cui abbiamo stretto una forma di amicizia da quando ci siamo accorte di essere tra le poche fanno la doccia lì.
Insomma: aspetto di solito con grande entusiasmo le ore di ginnastica settimanali, che si tengono il lunedì, il martedì (giorno dell'accumulo maggiore di acido lattico, per via dei circuiti della tostissima insegnante sessantenne... altro che Jane Fonda) e il giovedì.
Oggi, ahimè, sono costretta a saltare (il lunedì c'è Tiziana, la bionda energetica insegnante con una inesauribile fantasia per le coreografie), ma spero proprio di rimettermi in fretta.
C'è infatti una sensazione davvero impagabile che provo solo alla fine, quando, dopo la doccia e la parziale (accidenti a me) asciugatura dei capelli, mi rimetto in macchina e percorro i pochissimi chilometri che mi separano da casa. In quel breve tratto, mi sento completamente in pace con me stessa, pronta ad affrontare qualsiasi sfida, in una sorta di limbo psicofisico carico di benessere.
Ecco. Sarà questa la vera ragione che ha spinto la Jane a darsi all'aerobica. Ancora adesso (almeno fino a un paio d'anni fa sicuramente) insegna ginnastica agli anziani a distanza, con quel sorriso tipico delle vere maestre del muscolo tonico, capaci di farti sentire più magre e più flessuose già dopo una sola sequenza di glutei o di squat.
E se davvero (ma sarà vero?) che un po' le somiglio, mi auguro soprattutto di conservarne lo spirito. A differenza sua, infatti, non credo che potrò (né forse vorrò, ma mai dire mai) ricorrere al chirurgo estetico, al momento del prolasso inevitabile.
Ma qui posso dirlo: mia madre è ancora piuttosto piacente (checché ne dica lei), quindi se è vero che buon sangue non mente...
La vedremo. Per forza. Il tempo corre. Accidenti se lo fa.

sabato 19 maggio 2012

Dedicato alle ragazze di Brindisi e a tutti gli adolescenti d'Italia


Non ho fatto in tempo a memorizzare tutti i nomi, però le loro facce dubito che potrò dimenticarle in fretta. Soprattutto, non credo che potrò mai smettere di associare le risate e gli applausi carichi di allegria della folla di adolescenti assiepati nell'aula magna dell'istituto tecnico industriale di Fermo, alle ragazze del professionale di Brindisi rimaste coinvolte nel vile attentato di stamattina. Al tg3 sentivo che se l'ordigno fosse esploso qualche minuto dopo, la strage sarebbe stata ancora più grave. Proprio in quegli attimi, infatti, sono soliti arrivare i pullman che conducono le studentesse (la stragrande maggioranza degli iscritti all'istituto brindisino) dai paesi limitrofi. Anche a Fermo succede qualcosa di simile: i più mattinieri, di solito, sono proprio quelli che convergono nella cittadina marchigiana da più lontano, catapultati giù dalle "corriere", come le chiamano da queste parti, con le facce ancora mezze imbambolate. Per svegliarsi e reggere le cinque e passa ore di lezione, l'unica maniera è fare colazione, magari al bar della scuola, come stavano accingendosi a fare, probabilmente, Melissa Bassi, per ora l'unica vittima dell'infame attentato, e Veronica Capodieci, la seconda, mentre scrivo questo post, ancora viva, pur se gravissima, nonostante le notizie ferali di qualche ora fa.
Si può morire a sedici anni in un modo così atroce e insensato?
Abituati come siamo alle cosiddette stragi del sabato sera o tutt'al più ai tragici scherzi della sorte che a volte interrompono vite ancora troppo giovani, non si riesce a credere che stia davvero tornando quella rabbia sociale, direi più pre che post, che quando ero ancora bambina ha "azzoppato" il futuro di molti della mia generazione.
Perché bisogna dirlo chiaro e tondo: chi ammazza in questo modo, non importa se per mano della mafia o del terrorismo nero/rosso o di qualsiasi altro colore, uccide l'Italia e la speranza che possa diventare un Paese normale. Altro che G8, altro che avere le carte in regola. No, egregio professor Mario Monti, il nostro Paese non le ha e seguiterà a non averle  finché non finirà la teoria di commemorazioni e di funerali di Stato in ricordo di morti che tuttora urlano giustizia.
Quanta ipocrisia in questo Paese, quella sì, davvero, non manca. E quanta retorica.
Ero contenta, stamattina, di sentire i ringraziamenti di quei ragazzi conosciuti per pochissimo tempo (solo otto ore di lezione, ciascuna da due), eppure bastevole a farmi trafiggere dai loro sguardi vispi e insieme dolci. Mentre consegnavo a ognuno di loro l'attestato di partecipazione arrotolato come un diploma, ripensavo alla gioia che mi ha dato stare in loro compagnia e ancor di più alla dignità che sono stati capaci di restituirmi, inconsapevolmente, standomi ad ascoltare fosse pure per qualche minuto di seguito.
Tra qualche anno, se tutto andrà bene, Nathalie, Sara, Chiara, Paolo, Mirko e tutti gli altri prenderanno ciascuno la propria strada e io mi auguro davvero di cuore che sia la più luminosa possibile, che facciano o meno carriera, usando la parola che circolava stamattina sulle labbra di vari invitati.
Ma voglio dedicare i fiori che mi hanno regalato alle ragazze di Brindisi: assieme ai coetanei di Fermo e di tutte le altri parti d'Italia, vi scongiuro, provateci a cambiare l'Italia.
Noi quarantenni abbiamo bisogno della vostra energia, della vostra freschezza. Solo così, forse, il sacrificio di Melissa potrà essere, molto parzialmente, riscattato.