martedì 22 ottobre 2013

Narcisismi da Narcissus e #ISPF2013... ma in terza persona non ci parlo!


E va bene: autocelebriamoci. E parlo pure al plurale maiestatis. Certo, sarebbe ancora più preoccupante se parlassi di me in terza persona. Se qualcuno di voi lo fa, beh, sappiate che non sarebbe un buon segno. Tanto per fare la sinistrorsa snob, tra gli abbonati al discorso in terza c'è l'odiato B.
Venendo invece a NOI, spero che la botta di narcisismo di cui sopra non mi si ritorca contro, visto che lo scatto è di Pippo Onorati, fotografo, regista, giornalista etc etc, fondatore dell'agenzia Mammanannapappacacca.
Vi confesso che prima di domenica scorsa non l'avevo mai sentita nominare (ignoranza mia, anzi nostra), ma già da come Pippo mi ha fatto piazzare davanti a quel muro, chiedendomi di mettere in evidenza la borsa e di tirare un po' più su il foulard, ho capito di avere a che fare con qualcuno che un minimo ci capiva. Prima di scrivere queste righe, però, l'ho googolato e lo stupore è stato doppio.
Che posso dire? Pippo, per favore, non chiedermi le royalties sennò sono rovinata.
Mi piace molto la filosofia della tua agenzia (e non sto cercando di blandirti... giusto un pochino, su), insieme semplice e vivace. Mi ci riconosco pienamente.
Le coincidenze degli ultimi tempi, aggiungo, cominciano a sembrarmi un po' troppe.
Non avendo una sfera di cristallo, non so dire se porteranno da qualche parte, ma in ogni caso avvertire il sangue che ricomincia a scorrere più veloce fa bene. A meno che non sia un sintomo della pressione alta.
In definitiva, il Festival del Self Publishing di Senigallia è stata una vera benedizione.
Presto pubblicherò i miei scatti, ma sono indecisa se suddividere quelli della Biblioteca Antonelliana (che ha un magazzino BELLISSIMO) dagli altri dedicati al Festival.
Comincio con un paio qui sotto:




Tra le informazioni elargite da Italo Pelinga, il direttore della biblioteca senigalliese, me ne è rimasta impressa una in particolare: al posto di quelle scrivanie di legno chiaro, fino agli anni Settanta c'erano piccoli appartamenti, suddivisi da tramezzi, destinati ai poveri della città. L'ho trovato veramente affascinante.
E se anche Alessandra non ha vinto, secondo me ha vinto lo stesso.
Adesso, però, portatemi via.

venerdì 18 ottobre 2013

Dall'incidente al Festival del Selfpublishing di Senigallia... che salto!


Ho usato per un po' la foto che vedete sopra come mio profilo di Facebook.
Sulla t-shirt, è evidente, compare la copertina del mio libro, e l'ho ricevuta in dono per l'anniversario di matrimonio. Di lì a qualche giorno avrei infatti partecipato al mercatino estivo del giovedì di Fermo, un evento che anima le belle serate estive di questo angolo delle Marche da oltre trentun anni. Perché la ripubblico in questo contesto? Per raccontare insieme due differenti fatti.
Il primo è personalissimo e riguarda proprio l'autore del molto gradito regalo, ossia mio marito.
Ieri è stato sbalzato via dalla sua vespa rossa, che adesso staziona tutta accartocciata nel garage del padre di mia cognata (o qualcuno a lui molto vicino), mentre il Bipede (mio marito), per fortuna, è di là sul divano a riposarsi. I medici del pronto soccorso che l'hanno trattenuto (direi sequestrato, visto il numero di ore che abbiamo passato in ospedale) per accertare le sue condizioni, gli hanno prescritto relax e antidolorifici in caso di bisogno. Conoscendolo, sapevo già che non ne prenderà uno, ma intanto io ho fatto scorta di farmaci che onestamente spero finiscano per scadere quasi del tutto intonsi, come i molti che ho buttato (nell'apposito contenitore) giusto la scorsa settimana.
Tant'è: sempre meglio poter raccontare cose del genere con un po' di ironia che tacere per sempre.
Vado al secondo motivo.
Domani e dopodomani (ossia il 19 e il 20 ottobre) arriva finalmente a Senigallia il primo festival internazionale del SelfPublishing, dedicato principalmente a chi si autopubblica e-book, ma anche agli incoscienti come me che hanno scelto la strada del cartaceo.
Come già precisato più volte anche su Minime Storie, a mio modestissimo avviso, un libro fotografico va stampato, ma spero di scoprire in questi due giorni strade alternative economicamente (in tutti i sensi: pure quello green) praticabili.
A leggere il programma ufficiale, il Festival sembra molto stimolante e lo immagino affollato di gente curiosa e interessante. Tra gli appuntamenti che mi hanno colpito di più, ci sono i dibattiti con Antonio Tombolini, il fondatore di Narcissus, l'editrice della piattaforma di ebook più utilizzata in Italia, ossia Simplicissimus, previsti all'apertura e alla chiusura del festival. Poi mi aspetto utili dritte da Cristiana Giacometti, che alle 17.45 di domani parlerà di come trasformare il proprio libro in audiolibro. In più vorrei tentare di carpire qualche informazione preziosa dai grossi big dell'editoria che si confronteranno con i selfpublisher più agguerriti, nel dibattito previsto sempre domani alle 18. Infine vorrei godermi qualche momento più rilassante con Matteo Caccia e il suo programma trasportato da Radio24 a Senigallia e anche con Alessandro Bergonzoni, che non rivedo dal vivo da tempo immemorabile. Prevedo di riparlare del Festival anche al ritorno dalla bella cittadina di mare della provincia di Ancona, ma prima di chiudere questo post, sarà opportuno che aggiunga un ultimo dettaglio.
Domenica mattina alle 11.30 prenderò parte anch'io all'evento: chi vorrà sapere qualcosa di più di Che gatti e di me, mi troverà a quell'ora allo spazio chiamato dagli organizzatori Pickwick Club. Anche a me, ovviamente, hanno dato solo un quarto d'ora per dare le 5 W sul mio libro, ossia perché-dove-cosa-chi-quando (e la sesta how-come!) ho deciso di buttarmi nell'autoproduzione.
Confesso di essere un pochino emozionata, ma in fondo neanche troppo.
Mi spiace, questo sì, che il Bipede, al quale ho rubato una frase per usarla come prologo di Che gatti, non possa essere presente.
Prometto comunque di impegnarmi come cerco di fare sempre per trarre il massimo da questa esperienza.
Ringrazio da adesso gli organizzatori dell'Ispf e del contemporaneo concorso Storie da biblioteca al quale dovrei partecipare solo per la sezione fotografia. Temo di non essere più nello spirito, anche se deciderò domani il da farsi.
Fatemi, fateci anzi, l'in bocca al lupo.
Mentre scrivevo, il Bipede si è messo a letto: vicino a lui si è piazzato il gatto caffellatte.
Quando si dice pet-therapy...

giovedì 10 ottobre 2013

Le Gilmore Girls e il proprio ruolo nella vita



Tredici anni fa conducevo una vita totalmente differente. Diciamo che non avevo molto tempo di guardare telefilm, mentre andavo più spesso al cinema. L'età, e non solo quella, modifica molto le nostre abitudini e anche tralasciando possibili (nonché facili) battute sul rincoglionimento prodotto dallo scorrere del tempo, è pur vero che la tv campa sulle repliche di ogni sorta di serial tv. L'ultima scoperta in ordine di tempo è New tricks su Giallo, ma ne ho viste solo due di puntate, quindi non mi sento ancora pronta per parlarne.
La penultima, invece, è stata davvero una benedizione dal cielo, visto che va in onda giusto quando ci sarebbero gli ansiogeni e/o noiosi tg serali (e in replica il giorno dopo nell'analoga fascia oraria a pranzo). Sto parlando di "Una mamma per amica", la retorica traduzione italiana di Gilmore girls, trasmesso negli Usa dal 2000 al 2007, un telefilm insieme lieve e intelligente, incentrato sul rapporto tra una giovanissima madre e la figlia sedicenne e altri caratteristici personaggi che animano il paese immaginario del Connecticut in cui è stato ambientato.
Il bar di Luke e le case in legno così tipiche della grande provincia americana della East Coast, in verità, sono tutte finte, ma poco importa che la loro cittadina tanto bellina non esista, dal momento che non c'è un attimo del telefilm in cui non sembri tutto perfettamente credibile.
Adoro gli scambi tra Lorelai, la madre di Rory, e la nonna di quest'ultima, l'attrice Kelly Bishop, che fa di tutto per mostrarsi fredda e formale, persino acida, con la figlia, alla quale non può perdonare di essere rimasta incinta a sedici anni, tradendo ogni aspettativa della sua famiglia upper class.
E mi piace assai il rapporto tra le due protagoniste, così unite nonostante gli errori della prima (così brava a lasciare i fidanzati... lasciamo stare) e l'ansia da secchioncella della seconda (che alla lontana potrebbe riportarmi al mio passato. Anche se io non mi sentivo così sicura come lei).
E insomma: mi piace assai partecipare alle loro vite ipotetiche e immaginarmi che un giorno i loro sogni diventeranno realtà. Ho leggiucchiato qualcosa sulle serie successive a quella che La5 sta mandando in questo momento, ma non ho voluto indagare troppo per non perdere il gusto di scoprire che succederà giorno dopo giorno (dubito che mi tornerà voglia di guardare i tg mentre ceno/pranzo).
Non ho tuttavia potuto fare a meno di scoprire che il telefilm non ha avuto il finale che si aspettavano i suoi creatori, una donna e suo marito, per via di problemi tra loro e la tv americana che lo trasmetteva. Del resto, nella vita l'happy end hollywoodiano non esiste, e anche senza rattristarci al pensiero della fine che aspetta noi tutti prima o poi, è più facile che si viva costantemente nel "to be continued".
Piuttosto, mi piacerebbe sapere che cosa combinano tutti gli attori delle Ragazze Gilmore, dal momento che, anno più anno meno, si tratta di miei coetanei. Non so perché, ma ci tengo alle sorti della mia generazione, anche quando le rintraccio in gente che dubito che incontrerò mai personalmente.
Sarà perché, quando vedo una recitazione di buon livello, quando scorgo facce interessanti al di là dei personaggi interpretati, mi viene naturale tifare per loro. Per esempio, mi fa molta simpatia Peppino Mazzotta, l'attore che interpreta Fazio nel Commissario Montalbano, classe 1971. Per me è un grandissimo interprete e ho idea che sia forte anche nella vita privata.
Il problema dei telefilm di successo è però evidente: il personaggio che si è incarnato ti resta appiccicato e rischi di non riuscire più a staccartelo di dosso. Di qui la mia curiosità su che cosa facciano tutti questi bravissimi attori della mia generazione al di fuori del set.
Del resto, a pensarci bene, è una curiosità tipica di chi non si accontenta di ciò che va in scena, del cono di luce sulla ribalta. C'è sempre un lato B da scrutare, anche se potrebbe non piacerci sapere che cosa riporta.
Farsi domande è dunque inevitabile, soprattutto se si ha tempo e voglia di approfondire.
Dovrebbe essere la norma, anche (di più!) quando pensiamo a persone che conosciamo realmente, ma come diceva la signorina Novak in Scrivimi fermo posta, la "gente gratta raramente la superficie" ed è così probabile che si conosca molto poco l'uno dell'altro, figuriamoci di ciò che si dice dei personaggi dello spettacolo.
Alla fine, insomma, preferisco non andare troppo oltre e sperare che almeno loro, così lontani dal mio mondo, non abbiano troppe ambasce e possano semplicemente continuare a recitare.
Incontrarli televisivamente è stato bello. Già solo il fatto di aver regalato sorrisi, sogni e qualche lacrimuccia consolatoria dovrebbe riempirli d'orgoglio. Speriamo se ne ricordino, anche quando saranno, saremo, vecchi. Loro hanno avuto uno scopo nella vita. Ed è una fortuna che non capita a tutti.

lunedì 7 ottobre 2013

Ferrara, Internazionale e un elenco infinito di grazie


A essere prevedibile era prevedibile. Ferrara e il Festival di Internazionale mi fanno sempre questo effetto rinvigorente e credo a questo punto di comprenderne ancora meglio le ragioni.
La città è magnifica: la pioggia e il freddo di quest'anno, anzi, le hanno conferito un aspetto quasi parigino. Al mattino, in hotel, sono stata svegliata dal ticchettio delle gocce attutite dalle pareti e immagino i doppi infissi della porta-finestra. Mi sentivo a casa ed è stato davvero un dono del cielo che fossi da sola, per la prima volta nella mia vita, in una stanza oltretutto così confortevole. Sono risalita con la tazza di thè verde presa alla fine di una gustosissima colazione (il pasto della giornata che considero più importante) e mi sono goduta il paesaggio che si intravede nella foto che condivido qui sopra. Una leggerezza malinconica si è impossessata del mio corpo infreddolito, della mia testa piena di immagini e nozioni, di sorrisi e di incontri propiziatori (che dire dell'africano che mi ha augurato il meglio per la vita nel treno di andata? Chissà come si chiama). E ho finito per fare un pochino tardi all'ultima mattinata del workshop con Christian Caujolle, un uomo piccolino con una faccina sorniona e una cultura notevole, che mi ha conquistato un poco alla volta, ostacolata com'ero dal suo inglese alle mie orecchie non sempre intellegibile. Ero talmente concentrata a cogliere il suo labiale che ho realizzato meglio che cosa mi stesse capitando e in quale luogo interessante mi trovassi (la facoltà di architettura, nel cuore del ghetto ebraico, se le mie informazioni sono corrette) solo un po' dopo.
Più immediata e diretta, invece, è stata la reazione che mi hanno suscitato le foto di Gabriele Basilico sulle città e soprattutto le parole di questo immenso fotografo italiano scomparso prematuramente (aveva solo 69 anni, accidenti) lo scorso febbraio. A commentarle, c'era di nuovo Caujolle, stavolta liberato dall'onere dell'inglese: la traduzione consecutiva in italiano era stata affidata a una donna con una bella voce, il che, per me, ha fatto decisamente la differenza.
Le foto (e le musiche che le accompagnavano) di Basilico mi sono arrivate direttamente nello stomaco. Se dovessi spiegarvene le ragioni a parole, però, non ci riuscirei. Bisognava essere lì a farsele scorrere addosso, mentre l'umidità mi mangiava le ossa una dopo l'altra.
Ringrazio i miei amici Ketty e Matteo per l'accoglienza, il giro notturno per Rovigo, i ristoranti e i bar in cui mi hanno portata (che eleganza questi rovigini). Ringrazio anche gli organizzatori della piccola mostra cittadina sul cinema e il fiume, e poi il peso del borsone sulle spalle, l'ombrellino provvidenziale comprato in vista del viaggio, gli stivaletti acquistati in un periodo molto difficile, il giacchino giovanilistico, i complimenti gratuiti, il jazz nel dehor di un magnifico bar, lo sguardo dolce di Tiziana e la sua grinta segreta. Ringrazio Anna per la sua estrema e rassicurante simpatia, Giulia la zingara e il fidanzato dagli occhi dolci per il loro accento così evocativo, Luca per la sua fisicità gioviale (e per gli aneddoti sulla figlia quattrenne), Gabriella per il pomeriggio africano e per quel mix di sicilianità e milanesità che mi fanno morire. Ringrazio il tabaccaio per la pipa con tanto di sigillo di garanzia che ho portato a mio marito. Chi mi manca? Vito e i suoi occhi chiarissimi da conquistador, la giovane foto-editor Silvia, classe tutta veneta, l'edicolante della stazione di Ferrara che pareva saperne qualcosa della vita. E infine ringrazio proprio quest'ultima, per avermi dimostrato ancora una volta che stare al mondo è una grande cosa.

domenica 29 settembre 2013

Suad Amiry e l'autoironia che mi conquista

Suad Amiry

Giusto agli sgoccioli di questa sorta di lunga estate indiana, ho deciso di leggere Murad Murad, di Suad Amiry, un'architetta e scrittrice palestinese che ho avuto occasione di ascoltare al Festival di Internazionale, ormai ben quattro anni fa. E ho fatto proprio bene.
Il libro ripercorre le diciotto ore trascorse dall'autrice in compagnia di un gruppo di giovani braccianti palestinesi nel loro viaggio alla ricerca di un lavoro in Israele. Agli occhi di un occidentale non addentro all'annoso conflitto che contrappone arabi ed ebrei giusto nella terra più santa dell'umanità, lussureggiante di aranceti e ulivi, un clima quasi sempre mite, può sembrare bizzarro che una signora della buona borghesia musulmana non più giovane (come la Amiry stessa si definisce) si imbarchi in un'impresa così stravagante, oltretutto pateticamente camuffata da uomo.
Basteranno invece poche pagine del bel libro di questa simpaticissima architetta residente a Ramallah, ossia nell'area della Palestina attribuita agli arabi da non so più quale accordo internazionale, per comprendere quale dramma vivono ogni giorno migliaia di giovani e meno giovani arabi di Cisgiordania che non riescono a lavorare né nella loro zona né al di là del Muro.
E già, amici lettori non avvezzi alla questione palestinese come me, nella storia recente dell'umanità non c'è stato solo il muro di Berlino: tra i passaggi più partecipati di Murad Murad c'è proprio la trasposizione metaforica di questo muro arabo-israeliano, in particolare della galleria che lo attraversa all'altezza della città di Petah Tikva, meta del viaggio dei giovani braccianti, compreso il protetto di Suad che dà il titolo al libro.
Storicamente il nostro Paese ha sempre mostrato una certa simpatia per i palestinesi, salvo negarla per ragioni diplomatiche ogni volta che questi ultimi hanno risposto ai missili israeliani con attentati e altre azioni terroristiche. Come già sottolineato, non ho abbastanza strumenti per prendere una posizione pro o contro qualcuno, ma non posso negare di essermi appuntata mentalmente i nomi dei villaggi e paesi palestinesi esistiti per secoli e secoli, in luogo dei quali oggi sorgono parchi naturali dai nomi affascinanti. D'altra parte, Suad Amiry è a capo di un'organizzazione che tutela il patrimonio architettonico di Ramallah, quindi è facilmente intuibile quanto sia sensibile ai mutamenti "urbanistici" impressi da Israele.
Il vero motivo per cui parlo di questo libro, in definitiva, è un altro e per nulla politico.
Suad Amiry ha un'ironia invidiabile: come tutte le persone intelligenti, la rivolge innanzitutto verso se stessa, dipingendosi come una culona in climaterio, prossima all'infarto dopo una corsa pazza cui la costringono i suoi giovani compagni di viaggio onde evitare i probabili spari della polizia israeliana; poi verso i suoi "big boys", i medesimi aspiranti braccianti, ai quali vorrebbe disperatamente assomigliare, ovviamente invano. Me la sono immaginata mentre cercava di ficcarsi i capelli nel berretto alla Jeanne Moreau di Jules e Jim, gli occhi vivaci, indagatori e la lingua sempre pronta alla battuta salace. Particolarmente spassoso è il resoconto dell'incontro con la famiglia di Murad, a inizio dell'avventura, quando continuano a offrirle cuscini per farla sentire a suo agio, con il risultato che le sembra di galleggiare su una barca. Prima di questo libro, che nonostante la prosa frizzante, affronta comunque un tema molto serio, so che la Amiry ha scritto Sharon e mia suocera, la politica israeliana sempre sullo sfondo, ma filtrata dalla forzata convivenza dell'autrice con la madre di suo marito. Voglio cercarlo, perché sono certa che leggerlo mi piacerà assai.
Un altro aspetto di questa straordinaria signora nata esattamente venti anni prima di me è che non si vergogna delle numerose lacrime versate lungo le diciotto ore da simil-transfuga. Sarà per via della menopausa che cita spesso, sarà per la fatica fisica accumulata durante svariati tratti a piedi, in ogni caso il suo corpo e le esigenze (anche intestinali!) che lo guidano restano sempre in primo piano. E se c'è da piangere, beh si piange.
Oggi sarei dovuta andare a Porto San Giorgio a correre dieci chilometri con alcune amiche della palestra: non so perché (anzi: lo so eccome), ma ho dato subito la mia adesione, pur nutrendo nel mio intimo più di un dubbio che ce l'avrei mai fatta ad arrivare fino alla fine. Nonostante il mio volontaristico super-io, comunque, un po' come in Murad Murad, sono stata sopraffatta dal mio corpo. Oltre al raffreddore che stanotte mi ha tormentato costringendomi a soffiarmi il naso di continuo, ieri mi sono pure slogata una caviglia. Insomma: la corsa proprio non si doveva fare e ho come l'impressione che l'indebolimento del mio ginnico micro (in centimenti, non in larghezza) corpo sia la conseguenza di un'alterazione della mia psiche. Sono pazza? Ma certamente. E però ditemi se non è strano che giusto ieri abbia incontrato una giovane danzaterapeuta di nome Lucia (dal cognome tipicamente fermano e dai morbidi lineamenti spagnoleggianti) esperta di bioenergetica.
Mi sono avvicinata con neutra curiosità al gazebo nel quale lei e altre persone facevano provare gratuitamente massaggi ai piedi, all'area cranio-sacrale e per l'appunto il trattamento che ho scelto io.
Giacché c'ero, mi sono detta, perché no?
Premendo qui e là il mio intestino perennemente colitico e il mio collo appesantito da troppo computer (e pensieri oziosi), Lucia si è ovviamente accorta che avevo un basso livello di energia (e figuriamoci: ero mezzo rintronata dal raffreddore). Però, ve l'assicuro, mi sono lasciata andare al tocco delle sue mani estremamente fiduciosa nelle sue capacità. Ogni tanto, ovvio, pensavo a quel che avrei dovuto prepararmi per cena e in generale alla nottata da single (temporanea) che mi attendeva. A un certo punto, il colpo di scena. "Hai problemi con un uomo", mi dice Lucia. Mi sono messa a ridere. Poi le ho spiegato che ieri ero sola perché mio marito era in via del tutto eccezionale fuori città e che si trattava di un fatto inedito per me (di solito sono io che parto). Ci aveva in sostanza abbastanza "inzertato", alla Montalbano maniera. Ancora più precisa è stata tuttavia un'altra osservazione: "Spesso usi la socialità per non sentire il dolore che hai dentro". Adesso: di che dolore si tratti io non lo so, né credo che il mio dolore sia più grande di quello che hanno dentro molti altri. Però è assolutamente vero che ancora troppo spesso mi nascondo dietro le chiacchiere da bar, devo averlo anche scritto quissù.
La frase insieme più divertente e inquietante però Lucia l'ha pronunciata per ultima, dopo aver avuto conferma che ho effettivamente una sorella. "Hai un problema con lei". Ah sì?, ho subito reagito, seguito dal logico In che senso? Lucia mi ha premuto in un altro punto del mio intestino sempre più in subbuglio e ha emesso la sentenza: "Riguarda la vostra infanzia e il rapporto con tuo padre".
Onestamente, lo giuro, non ho idea a che cosa si possa riferire. Certo: mia sorella ogni tanto mi prendeva in giro dicendomi che ero una trovatella e una volta mi ha fatto cascare da una giostrina (in generale voleva un fratellino e invece si è beccata questa biondina con gli occhi celesti e una faccia da madonnina infilzata, come mi chiamò un tempo l'acida nonna del mio primo fidanzato pisano). Mio padre, a sua volta, per errore mi spense una sigaretta sulla fronte: ho una fotografia di me in braccio a lui con il segno della bruciatura. Ho già avuto modo di dire, inoltre, che non escludo che davvero i miei volessero un maschietto come secondo figlio e invece è arrivato questo puffo pieno di nevrosi.
In tutti i casi, Lucia mi ha rassicurato precisando che nei prossimi giorni i punti energetici che mi ha sbloccato mi faranno agire in modo diverso dal solito. Non so se crederle. Vi dirò anzi che temo un po' i miei eccessi di energia: a differenza di Suad Amiry, è tanto che non mi lascio andare ai miei proverbiali pianti liberatori (oddio: mica vero... è che piango sempre di nascosto). E se significasse che potrei provare anch'io come lei a camuffarmi da maschio (soddisfacendo il molto presunto desiderio nascosto dei miei), credo proprio che pure in questo caso non ci crederebbe nessuno.
Tutto questo discorso sconclusionato ha una morale? Ma naturalmente no.
Con il passare degli anni, infatti, mi sono disabituata a dare troppo peso alle emozioni e alle bizzarre coincidenze. Non ho tuttavia smesso di tenere diari, nel neanche tanto inconsapevole bisogno di fissarne almeno qualcuna. Se amo scrivere e fotografare, insomma, qualche motivo ci sarà.
In questo specifico caso, forse mi occorreva incontrare Lucia per finire il post su Suad Amiry che avevo cominciato ieri. La foto che vedete sopra è mia: usarla dopo quattro anni in un contesto semi-pubblico sarà un segno di qualche cambiamento? Chissà che ne direbbe la fermano-spagnola.
In tutti i casi, bellezza bioenergetica, ti ringrazio per avermi costretta a stopparmi un attimo e a guardarmi dentro. Non posso promettere che smetterò di cedere alla socialità-camuffata come Suad durante il viaggio, ma ci proverò. In bocca al lupo a te per il tuo lavoro.
Uscendo dalla tenda, vedendola in canottiera, mi è venuto d'istinto fare la mamma: non prendere freddo, le ho detto. Chissà se avesse più tempo che cosa mi avrebbe detto di quest'altra mia trovata svia-attenzione dalla sottoscritta che ho sviluppato da quando non sono più una ragazza.
Non oso pensare a cosa mi inventerò quando diventerò una minuscola vecchina.

martedì 24 settembre 2013

Malati di Alzheimer e familiari, da Como a Cantù per non essere mai soli



Il 21 settembre è diventata da anni nel mondo la Giornata dell'Alzheimer. Si tratta di una data che, benché non sia più la blogger a tempo pieno di un sito internet aziendale che parla di anziani & disabili, le due categorie di cittadini in genere ancora troppo bistrattate, non posso più scordare. Finché la memoria mi assisterà, naturalmente. Scrivo queste parole con un filo di ironia, ma ben consapevole di stare parlando di una malattia di estrema crudeltà. Se infatti si limitasse a rubarti pezzo dopo pezzo il tuo passato, è probabile che più di qualcuno ne sarebbe addirittura contento. Purtroppo, però, dopo un certo stadio, non si è più in grado nemmeno di allacciarsi un bottone e si diventa come foglie al vento. Potete immaginare perciò lo strazio per i familiari che, oltre alla pena mista a volte a rabbia che provano per il congiunto malato, spesso non sanno bene come devono comportarsi.
Per fortuna, però, in questo strano Paese pieno di problemi, ogni tanto spunta qualche angelo, capace non solo di confortare, ma anche di offrire aiuto pratico a chi si ritrova all'improvviso in pesti così serie. E' successo per esempio a Como, dove per ben 35 anni, un gruppo di generosi pionieri oggi ultrasettantenni ha rivoluzionato il concetto stesso di volontariato, dando vita al Centro donatori del tempo, purtroppo in chiusura. Prima di rattristarvi con me per la fine di un'esperienza inevitabilmente irripetibile come lo è la vita di ognuno di noi, vi dico subito che c'è stato un passaggio di testimone. Da ottobre, informa l'ultima newsletter diffusa dal Centro comasco, "l’organizzazione  sarà gestita dalla Cooperativa Sociale Progetto Sociale di Cantù che si è impegnata a proseguire il cammino da noi tracciato". Un cammino, precisa la lettera elettronica (ma come sono demodè), intrapreso nel 1992 relativamente al sostegno ai "malati di Alzheimer ed ai loro familiari". Perché invece la sottoscritta ha parlato di attività lunga 35 anni? Semplice: perché il Centro esiste da prima del 1992 e si occupava di bambini disabili fisici e psichici. A dirmelo, era stata in un'intervista per il già citato sito aziendale Carla Bignami, socia fondatrice di questa straordinaria realtà cittadina.
Proprio Carla in persona, anzi, mi ha avvisata dell'addio alla "sua" creatura in concomitanza con la ricorrenza mondiale.
So che cosa significa chiudere un cerchio: anche ammesso che ci si metta in attesa del prossimo che si aprirà (ed è auspicabile che sia così: altrimenti che senso avrebbe la vita?), c'è sempre una fase di lutto, o quanto meno di disorientamento, che richiede il sostegno degli amici.
Sono sicura che quest'ultimo non mancherà a Carla e ai suoi collaboratori, ma è sempre bene non dare nulla per scontato. Del resto, il Centro donatori del tempo ha fatto proprio questo con i familiari e i malati: non li ha lasciati soli mai, dando comunque un po' di normalità a un'anormalità che si fa quotidiana, ogni volta che veniamo colpiti da una malattia.
Raccolgo in definitiva il messaggio sottinteso nella mail che mi ha mandato questa straordinaria signora conosciuta ahimè solo per telefono: noi del Centro non abbandoniamo i malati e i loro familiari, ma passiamo semplicemente il testimone. Al posto loro, infatti, come già detto arriva la sopra citata cooperativa di Cantù, che riattiverà il Filo diretto, ossia il servizio telefonico di consulenza psicologica ai familiari dei malati, al numero di cellulare 348-6771698, e le altre attività che hanno reso celebre il Centro comasco: sto parlando del "Caffè del Lunedì," allo Yacht Club della città dal 2001, e dei "Venerdì insieme", nella sede dell'associazione culturale Giosuè Carducci. 
Che altro aggiungere?
Solo in bocca al lupo a tutti, vecchi e nuovi donatori di speranza morale e materiale.
A Carla dico in più grazie per un sacco di cose, non ultimo per avermi ricordato che nella vita si può sempre aprire un nuovo capitolo. Lei, per dire, a 43 anni si è dedicata anima e corpo a un progetto davvero enorme come il Centro. Io, che oggi ne uno di meno di lei allora, non posso che fare altrettanto. Basta tenere gli occhi (oltre che il cuore e il cervello) sempre in movimento.
E qualcosa accadrà.

martedì 17 settembre 2013

Amazzone in tempo reale, una lezione di dignità in forma di libro

Foto di Loretta Emiri, autrice di Amazzone in tempo reale, Livi 2013

Non è facile recensire Amazzone in tempo reale di Loretta Emiri. Pur essendoci conosciute meno di due anni fa, Loretta è infatti diventata una delle mie amiche più importanti: l’ansia da prestazione è così divenuta davvero consistente, soprattutto perché i temi che affronta nel suo libro mi graffiano la pelle più delle unghie dei miei gatti. Per tentare di vincerla, comincio intanto col dire che è solo merito di Loretta se, capitolo dopo capitolo, ho imparato a distinguere i nomi e le abitudini di quel che resta delle popolazioni autoctone del Brasile (e non solo di quest’ultimo), cogliendo in più di un passaggio quanta nostalgia si sia sedimentata nell’anima, negli occhi e nella stessa postura della mia amica dal bell’accento umbro. Dopo circa vent’anni di condivisione sempre più intensa della cosiddetta causa indigenista, Loretta è tornata in Italia, che deve esserle davvero sembrata una prigione, umida (anzi fredda, non solo meteorologicamente) e angusta.
Non si tratta di farsi passare per amici degli ultimi della terra, per un frainteso senso di solidarietà con “chi sta peggio di noi”. Loretta non è tipo da sentimentalismi a buon mercato. La sua apparente durezza (anche nella lingua che adotta) è frutto di una sofferta crescita interiore, di una lucida (fin troppo impietosa) autoanalisi, tipica delle menti più vivaci. La mia amica stana l’ipocrisia come saprebbe fare solo un animale con la sua preda. Una volta che l’ha scovata, si può star certi che ce lo farà sapere. Ci lavorerà su per giorni, per anni, forse, ma prima o poi la sua riflessione si trasformerà in testo scritto, in un “brano”, come definisce lei stessa i capitoli che compongono il libro. Illuminante è, per esempio, la descrizione degli appunti-patchwork dai quali ha tratto l’ultimo brano, il più duro, probabilmente, comunque il più adatto a chiudere la sua originalissima rielaborazione dell’esperienza brasiliana, ricca di aneddoti tratti dalla sua vita di formatrice di insegnanti indios, un incarico che l’ha messa in contatto diretto con diverse realtà: innanzitutto con gli indios, ai quali Loretta dedica le parole più dolci, per via delle molte occasioni in cui le hanno mostrato amicizia, accoglienza semplice e profonda condivisione; poi con i missionari (e le suore), che non sempre descrive con parole accomodanti (tutt’altro, in certi passaggi), per via delle troppe occasioni di mancato incontro non tanto con lei, quanto con gli esponenti delle popolazioni native; infine con i politici brasiliani e in generale i discendenti dei conquistadores, non sempre in grado (per essere diplomatici) di offrire vero supporto alla causa indigenista.
Non sto mettendo le mani avanti, ve l’assicuro, è solo che, man mano che scrivo, capisco ancora di più perché mi fosse difficile stendere una recensione accurata e onesta del libro di Loretta, un’opera essenzialmente autobiografica, cui però si mescola, per forza di cose, la storia con la S maiuscola, riconosciuta tale solo in anni molto recenti, anche grazie all’azione di persone come lei e degli indios dall’autrice medesima resi immortali proprio con i suoi racconti.
Sì, era davvero arduo realizzare una sorta di diario ragionato degli anni presumo più belli della vita vissuti dall’autrice finora (ma essendole amica, ovviamente le auguro di passarne di mille altri di periodi così) e al contempo confrontarsi con la complessità della questione amazzonica, resa ancora più intricata dalla presenza di altri “povirazzi” (alla Montalbano) espulsi da una globalizzazione sempre più aggressiva, la stessa che anche in Europa sta facendo vittime di ogni genere.
Che dire, poi, delle delusioni che sento inevitabilmente anche mie, provocate in Loretta da un mercato editoriale pressoché asfittico, ostile, quasi, alle voci fuori dal coro, coriacee all’editing contemporaneo, capace di promuovere troppo spesso solo storie in serie?
E pensare che, all’apparenza, il libro di Loretta potrebbe attrarre un certo tipo di editoria impegnata, amica dei popoli, sinistrorsa, diciamo così. Come già accennato, però, l’autrice non è capace di fingere, non apparterrà mai ad alcuna parrocchia, né santa né laica. Lo si capisce bene già dal passaggio che riporta nella quarta di copertina, laddove sgombra il campo sul più macroscopico degli equivoci in cui noi occidentali cadiamo quando parliamo di Amazzonia (e anche di Africa, aggiungerei). Tutelarne la sussistenza non coincide affatto con la salvaguardia del “polmone verde del mondo”, una definizione che mai verrebbe in mente agli Indios. Se questi ultimi vogliono difendere l'Amazzonia, infatti, non lo fanno di certo per ragioni ecologiste. Semmai per ragioni ecologiche, nel senso primigenio del termine: se sparisce la foresta, ci dicono gli indios da anni, spariamo noi. Il che significa la fine di un modo diverso, non alternativo nel senso che l’aggettivo ha assunto durante l’era hippy, di vivere. Se cancellate l’Amazzonia, gridano come possono, cesserà per sempre un modo differente di stare al mondo, al quale stiamo già rinunciando, pezzo dopo pezzo, per via dell’ormai non più cancellabile contatto con voi bianchi.
Tra gli esempi di contaminazione già in atto, in particolare, Loretta si sofferma sul rimpicciolimento di alcuni oggetti di artigianato cosiddetto etnico per dare agli occidentali che li acquistano la possibilità di trasportarli più agevolmente.
Di per sé, a mio avviso, i contatti tra i popoli sono sempre arricchenti, ma diventano di altra natura quando non c’è equilibrio tra le parti.
I piccoli fanno sempre grande fatica a cavarsela. Posso ben dirlo io, dall’alto dei miei 152 centimetri.
Allo stesso tempo, i piccoli possono comunque creare qualche ostacolo, con il cervello, il cuore e le parole. Questo, certo, finché non si passa sul piano della forza fisica.
Fino a quel giorno, però, non si potrà fare a meno di lottare, mostrando con il proprio stesso stare al mondo una dignità da giganti.
E Loretta è un vero e proprio Golem di dignità, in ogni cosa che fa.
A lei, il mio più sentito grazie.
A voi, che di certo adesso acquisterete il suo libro, buona lettura.