giovedì 12 aprile 2012
Impiegati-Stakanov o emuli di Kafka?
Leggevo giusto stamattina che i dipendenti del Comune in cui abito sono dei gran lavoratori: la scoperta è stata resa possibile dal provvedimento anti-assenteismo voluto dall'ex ministro Brunetta, mio simile (per una questione di centimetri, non per altro).
Buon per noi semplici cittadini, verrebbe da dire a caldo. A freddo, però, ci si accorge che l'organico del suddetto Municipio andrebbe rafforzato di almeno un centinaio di persone, dal momento che gli attuali assunti sono costretti a fare spesso straordinari.
Ora, non posso essere sicura che sia vero: non c'è nessun impiegato che ammetterebbe mai di non aver nulla da fare, ma d'altro canto, se l'articolo si basava su dati certi, è altrettanto probabile che qualche carenza ci sia davvero. Il sindaco, in tutti i casi, ha già detto che di prendere qualcun altro non se ne parla. E pazienza.
Però una riorganizzazioncina la riterrei opportuna, onde evitare demenzialità come quella documentata dall'immagine in alto.
Si tratta del dettaglio di una lettera speditaci dal Comune che sarebbe piaciuto a Stakanov, con la quale ci si informava come saldare il debito per le tarsu (il balzello sulla spazzatura) mai versato da quando abitiamo dove abitiamo.
Nulla da discutere su questo: The Sfaccendatis' pagano tutto fino all'ultimo centesimo. Anzi, sono stati loro stessi ad autodenunciarsi al suddetto iper-indaffarato municipio quando hanno ricevuto l'avviso di pagamento.
Però, mi domando, perché spedire testi così? Perché illuderci che avremmo potuto rateizzare il debito?
Siamo certi, in altri termini, che l'impiegato autore di cotanto prodotto letterario lavori bene?
Oddio, magari proprio perché è pieno fino al collo di incombenze, non ha avuto il tempo di sistemare il pro-forma che si spedisce in casi del genere. Però qualcosa, detto apertis verbis, mi fa dubitare del contrario, non foss'altro perché ho visto in faccia gli addetti all'ufficio tributi.
Ma Lombroso non aveva sempre ragione, suvvia, e d'altra parte anche Franz Kafka faceva l'impiegato durante il giorno ed è probabile che al lavoro avesse una faccia poco allegra (e non molto sveglia).
In tutti i modi, alla scadenza mancano ancora due settimane. Dopodiché, mi voglio augurare che la faccenda si chiuda qui. Se non dovesse essere, una letterina la scriverò io (tanto sono Sfaccendata) per pregare il Comune di verificare che le ore trascorse sul posto di lavoro dai propri dipendenti coincidano veramente con efficienza. Brunetta o non Brunetta, casse municipali piene o vuote, la crescita (e la ripresa) passa anche da queste piccole cose.
martedì 10 aprile 2012
La vittoria nella vita
Scombussolata come posso essere solo dopo qualche giorno in terra natale, butto giù questo post per fissarlo, se possibile, per sempre. O almeno finché esisterà questa piattaforma di blog (ho scoperto da poco di aver perso tutti i post scritti su splinder. E pazienza: nulla è eterno).
Sono state giornate intense. Prevedevo la commozione generale, ma l'autenticità di quei momenti mi ha ripagato completamente della tensione dei giorni precedenti alla partenza. Una tensione difficile da sciogliere non appena varcata la soglia della casa dei miei genitori, come probabilmente mi capitava quando ero più giovane e la vita mi pareva ancora carica di molte promesse. Ma siccome so di essere letta proprio dalle persone che mi vogliono più bene, preciso che nessuno di loro è responsabile dei miei stati d'animo. Certo, vorrei che fossero fieri di me come un tempo, quando prendevo trenta agli esami o mi facevo strada (almeno così sembrava) nel lavoro.
Però il mio nervosismo e la conseguente difficoltà di prendere sonno per i primi due giorni, proprio in quel letto che prima mi pareva l'unico giaciglio in cui potessi veramente riposare, ha a che fare solo con l'incertezza del presente, contro cui continuo a lottare con tutte le mie forze.
Passata la Pasqua e lo scambio dei regali, per fortuna, i nodi si sono allentati e sono stata invasa da una grande tenerezza.
Trascrivo perciò di seguito le parole che mia sorella ha dedicato a mia madre, mutuate da Daisaku Ikeda, un autore che non conosco:
"Il desiderio di ripagare i debiti di gratitudine è un'energia infinita che ci spinge a crescere e migliorare più di qualunque cosa. La vittoria nella vita appartiene alle persone capaci di ripagare i debiti di gratitudine".
Mai frase mi ha illuminato di più negli ultimi tempi.
E chissà che i vuoti e gli "sfaccendamenti" del mio presente non mi stiano semplicemente dando la preziosa occasione di compiere, almeno in parte, la missione "vittoriosa".
Preferisco quest'ultima parola a "vincente", un aggettivo utilizzato accanto a "generazione" da un'ennesima agenzia interinale che ho scoperto con mia sorella dietro l'angolo di casa dei nostri genitori.
Ma oggi non voglio polemizzare né intristirmi.
Con il cuore ancora colmo di affetto e natura (che bei posti abbiamo visto ieri nella gita di Pasquetta! Io c'ero già stata una vita fa, perciò era come vederli per la prima volta) e un forte desiderio di dormire per riandare con la testa al recentissimo passato, prometto di fare il più possibile per crescere davvero usando la mia energia nel modo indicato da Daisaku (e da mia sorella).
A tutti i miei cari, grazie di tutto quello che mi date.
In un certo senso, credo che il miracolo della Pasqua, della rinascita intendo, si sia compiuto anche per me. Ed è solo merito vostro.
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giovedì 5 aprile 2012
Da Sarajevo all'Aquila, ricordare per rinascere
Stamattina l'organizzatore di una conferenza stampa ha sottolineato la doppia ricorrenza che cade proprio in questi giorni. La prima era l'oggetto dell'incontro con i giornalisti: l'assedio di Sarajevo, cominciato il 6 aprile di vent'anni fa. Ai tempi avevo la metà degli anni che ho oggi, un'età già abbastanza adulta, certo, ma non così ragguardevole da permettermi di capire con sufficiente chiarezza quel che stava succedendo a poche centinaia di chilometri da noi. Negli anni successivi, ho in parte colmato le lacune sulla guerra che ha dilaniato la federazione jugoslava, nostra dirimpettaia, ma confesso di aver rimosso gli aspetti più crudi di quella immane tragedia. Ed è per questo che sono grata a questa piccola mostra locale, ricca di fotografie, disegni, cartine e contributi video di quei giorni. Anche se farò fatica a leggermi tutto, più che altro per la quota di dolore contenuta in ogni goccia di sangue versata da innocenti civili, so che lo sforzo della memoria è un esercizio importante per ogni ogni essere umano che voglia sentirsi veramente tale.
Similmente, sto cercando di non rimuovere la ferita provocatami dall'altro evento assai più recente che ha colpito la mia terra natale solo tre anni fa, ieri per la storia, e meno di ieri per la paura che ho provato quando ho realizzato dove fosse l'epicentro che ha fatto tremare (eccome!) anche la casa in cui abito tuttora.
Non sono mai andata di persona a vedere le tendopoli né le macerie dell'Aquila, ma ieri, guardando le fotografie dei bombardamenti a Sarajevo, non ho potuto fare a meno di collegare i due fatti.
Di quanta violenza è capace l'uomo e quanto può essere forte la risposta della natura ai nostri tentativi di dominarla.
Davanti all'urgenza della storia, le vite dei singoli non contano più, se non per essere annoverate nel computo di sopravvissuti e vittime.
Dall'altra parte, ho considerato, le emergenze producono un effetto narcotizzante sulle difficoltà del proprio presente: finché c'è da aiutare chi sta peggio, si riesce a non pensare più (almeno non troppo) ai sogni mai realizzati o alle altre frustrazioni della quotidianità.
In quegli anni, gli italiani partiti alla volta di Sarajevo sono stati tantissimi, lo stesso è successo all'Aquila tre anni fa. In quei momenti, chi aiuta si sente più vivo, ma bisogna stare attenti a non scambiare l'eccitazione prodotta dal caos cooperante con la normalità. Prima o poi si deve tornare a casa, lasciando sole quelle persone ferite, fisicamente e moralmente. Quanta solitudine si può provare una volta a casa? E quanta ne avranno provata gli aiutati una volta rimasti soli?
Ho letto che molti bosniaci di nuova generazione, magari molti di quei bambini che hanno disegnato l'assedio e l'esplosione delle bombe di cui ho visto qualche esempio alla mostra, sono andati a vivere all'estero. Non ce l'hanno fatta a restare in una ex città multi-culturale, smembrata insieme con il resto della ex Jugoslavia dalla diplomazia come ultima soluzione per porre fine alla pulizia etnica.
Qualcosa di simile, temo, faranno anche i futuri adulti aquilani che hanno raffigurato le case crollate nei loro disegni infantili. A distanza di tre anni, il centro storico è ancora pressoché disabitato e gli abitanti che ne sono fuoriusciti ora abitano più o meno tutti in quartieri nuovi senz'anima. Ce la faranno, gli aquilani del futuro a riprendersi la città? Perché sui miei coetanei, purtroppo, ho qualche dubbio.
E tuttavia, forse, proprio l'essere ancora in buona parte in una condizione d'emergenza, potrebbe spingerli all'azione più di quanto non sappiano fare gli italiani di altre parti della Penisola, schiacciata da una crisi epocale, che spero (sinceramente) di poter raccontare ai miei nipoti (lo dico come zia) e ai loro figli come di un periodo lontanissimo, come il Klondike di Paperone.
Speriamo.
E' questa la mia preghiera laica di Pasqua. Una preghiera un po' sotto-tono, ma pronunciata come se fossi un fuocherello che cova sotto la cenere. Per rinfocolarlo, per fortuna, ci vuole poco.
Buone rinascite (incendiate come un'alba sull'Adriatico e un tramonto in Montenegro!), amici.
martedì 3 aprile 2012
Sensi di colpa e caffè
Squilla il telefono di casa.
Da qualche tempo non è più il trillo querulo del precedente apparecchio, ma una musichetta melodiosa, un po' meno ansiogena.
Come da copione, però, tocca a me rispondere per via dell'ossessione dello Sfaccendato per i seccatori. Evidentemente non è per me, ma sulla lapalissiana constatazione non sembra essere dello stesso avviso il tipo all'altro capo (ma i fili del telefono esistono ancora?). "Il signor XXXX?", sento rispondere al mio "Pronto?". E io, di rimando, con un tono abbastanza sfottente: "Eeeeh, no... Un momento, prego".
Nel passare il cordless allo Sfaccendato, avevo già capito che sarebbe andata a finire nel solito modo.
Perché una persona che non capisce al volo, sentendo la mia voce (un po' meno di testa di quella di Ilaria D'Amico, per intendersi), di aver a che fare con una donna e non con un "signor tal dei tali", tanto sveglio non dev'essere.
Difatti.
"Sì, sono io.... sì, quell'annuncio è mio, ma l'ho messo molto tempo fa... precisamente di che cosa ha bisogno? Sì, capisco, ma non credo che un caffè insieme faccia la differenza... beh, se non mi spiega prima che tipo di figura le serve, le farei solo perdere tempo... Beh, insomma, un'idea ce l'avrà... ah, vabbè, ho capito. Non credo che faccia per me... a provvigioni non lavoro. Arrivederci". Clic.
Se c'è una cosa che manda al manicomio lo Sfaccendato, sono i sedicenti imprenditori che non ti sanno dare neanche uno straccio di delucidazione su quello che vogliono. Non si tratta di sapere per filo e per segno che cosa, eventualmente, si andrebbe a fare per loro, quanto di capire con minore vaghezza in che settore si collochi la mansione prospettata. Insomma: a un aspirante macellaio non si direbbe mai prima prendiamoci un caffè che poi, a sorpresa, ti faccio vedere i quarti di bue che dovrai tagliare.
Perché quando il lavoro è un po' meno materiale l'approccio dovrebbe essere diverso?
Oltretutto, allo Sfaccendato è già capitato di bere qualche caffè con soggetti del genere e di imbarcarsi in progetti naufragati al primissimo scoglio (senza riceverne, ovviamente, neanche il rimborso della benzina), per questo adesso è più che prevenuto. Buttata giù la metaforica cornetta (quant'erano belli i telefoni di una volta con la ghiera da far girare), Sfaccendato mi ha detto, sconsolato: "Cose così non posso raccontarle a nessuno, tanto meno a mia madre che mi direbbe pruaaaaaaa", che sarebbe "prova" nell'imitazione mantovanesca, con annesso starnazzamento delle braccia, che è solito destinarle.
Non ci libereremo mai del senso di colpa familiar-genetico? Forse no. Però bisogna buttarlo fuori, svelarsi almeno un po'. Almeno credo. Se dovessi cambiare idea, chiuderò la rubrica e tornerò a recitare anche su questo spazio.
Perché scrivo questo?
Perché mi sto accorgendo che un risata amara, a volte, può spegnere il sorriso più di un pianto.
Staremo a vedere.
A tutti voi buona Pasqua, anzi, buone rinascite.
lunedì 2 aprile 2012
I have (?) a swedish dream... ma a Sambuceto non ci vado
Dopo aver compilato il modulo online e aver fissato i miei occhi in quelli del direttore delle risorse umane, non ci avevo più pensato. Fino a qualche giorno fa, quando ho beccato su "La Repubblica" (che non leggevo da secoli) un pezzo di Giuseppe Caporale che raccontava la seguente storia: il tizio (e il suo staff) che sta impazzendo dietro i trentamila curricula ricevuti per ridurli ai 200 circa necessari, quello che ho guardato intensamente per capire, lombrosianamente, se mi potevo fidare, ha scritto una lettere aperta a un non meglio identificato politico locale per domandargli di non fare inutile pressing per piazzare i suoi protetti. Insomma, stop alle raccomandazioni, avrebbe detto il responsabile HR dell'Ikea, faremo una selezione come dio comanda.
E speriamo. Non tanto per me, che sono fuori tempo massimo per fare la magazziniera o la cassiera, ma per l'esile fettina di prescelti privi di sponsor.
Perché, diciamolo, un simile assalto a una catena di mobiletti simil fai-da-te, molto amati dai gggiovani, non sarebbe stato possibile in epoca di vacche grasse.
E infatti, al contrario di quanto ho letto poco fa su un articolo di una web tv abruzzese, dubito analogamente che i candidati siano tutti di primo pelo (io non lo sono di certo, per esempio).
D'altra parte i "vecchietti" si auto-annienteranno da sé, raccomandazioni o non raccomandazioni: sempre che non abbiano mentito compilando il form, per esempio dove ti chiedono quante ore sei disposto a lavorare, comprese, naturalmente, quelle del fine settimana. Io sono stata onesta (ed è per questo che non mi chiameranno mai): dovendo viaggiare, visto che sono anni che non abito più vicino ai miei genitori, dovrò pur vedere mio marito (e i miei gatti) ogni tanto. Anche perché, naturalmente, i posti di cui abbisogna il nordico marchio di scaffalature, sono tutti a tempo determinato. Quindi è piuttosto improbabile che dall'oggi al domani ci si trasferisca tutti a Sambuceto, uno dei posti più brutti al mondo.
Insomma, vedremo. Se mai dovessero contattarmi, lo saprete. Salvo, naturalmente, sperticarmi in lodi e blandizie varie se alla fine mi assumessero per davvero e non come semplice mulettista, bensì come RESPONSABILE (senti che megalomania) dell'intero capannone blu e giallo.
Quant'è bello spararla grossa. Sì, fa sentire molto meglio.
venerdì 30 marzo 2012
Caro Mario ti scrivo
Anche i big scrivono lettere, soprattutto nei giorni di relax. E' successo a Mario Monti alle prese con la missione cino-giapponese, che ieri, bontà sua, prendendosi una giusta giornata di pausa, ci ha voluto spiegare che cosa intendesse dire quando ha detto che gli italiani hanno più fiducia in lui che nei partiti.
Anche volendo, come voglio, evitare i talk e le trasmissioni radiofoniche che parlano di suicidio (ieri, salendo in auto, sono stata accolta dal funereo tema di un programma di Radiotre. Ho subito ripiegato su Billie Holiday: la malinconia è una cosa, la disperazione un'altra), è inevitabile che ogni tanto incappi nell'attualità.
E tuttavia, essendo questo spazio mio e solo mio, preferisco affrontarla da un collaterale punto di vista.
La premessa è: caro MarioBros, la sfiducia della parte onesta del Paese va ben oltre l'impietoso (impietosissimo) giudizio sull'intero sistema partitico nazionale. Ti spiego perché (e scusami per il tu, ma se Luca Sofri saluta con un ciao il suo pubblico, pure io, che parlo da me a me, posso permettermi un tono amichevole).
La diffidenza nutrita da quelli che pagano tasse, canoni di locazione, contributi, tessere di circoli, iscrizioni alla palestra, bollette, benzina etc etc fino all'ultimo centesimo e puntuali neanche se fossimo in Svizzera si estende a quasi tutta la classe dirigente italiana, della quale, ebbene sì, fai parte anche tu, superministro tecnico.
E sai perché, pur dandoti ancora qualche speranza (più che altro per non perderla io del tutto), non siamo convinti che tu sia poi così diverso dagli esponenti dei fritti partiti che hai giustamente bacchettato?
Perché hai cominciato il tuo mandato rivolgendoti sempre ai soliti, tracciabili fino al midollo osseo, che non sarebbero capaci di rubare neanche una caramella.
Ieri mattina ero in un negozio e aspettavo oziosamente che la mia amica finisse di chiedere informazioni. A un certo punto, tra un'occhiata distratta e l'altra agli oggetti esposti, sono stata attratta dalla conversazione che si stava svolgendo tra l'altro negoziante e un omino anziano. Parlavano di ristrutturare il locale, anche se l'ho capito solo dopo. "Senti - diceva il vecchietto - s'ho costruito una palazzina abusiva... ci s'ho ricavatu tre appartamendi... vuoi che c'abbia paura de fà du colonne?".
Eccoli qua gli italiani. Quelli in cui io non mi riconosco affatto, gli stessi che, poi, molto probabilmente, non hanno mai saltato neanche un'elezione. Ma sai qual è il problema, caro professore? E' che queste persone non hanno del tutto torto: se non c'è nessuno che li controlla, che li multa non appena mettano in moto la betoniera per costruire o raddoppiare volumetrie in posti chiaramente inadatti allo scopo, continueranno a mangiarsi suolo in tutta tranquillità, convinti, magari, di essere dei benefattori perché loro sì che danno lavoro ai "muratò" e fanno "girà" l'economia.
E sai quel che più mi spaventa, Mariuccio? E' che se arriveranno davvero i cinesi e gli indiani con i loro denari, questo Paese così culturalmente arretrato finirà per essere sommerso da un infinito blob di cemento in nome della crescita e della ripresa.
Senza una visione non si va da nessuna parte. Neanche tu e i tuoi ministri piangenti e insieme sprezzanti del destino di chi vorrebbe ancora averne uno non proprio buio. Di chi paga (e fa sacrifici, eccome) tutto fino alla fine, ma che comincia a essere stanco di non avere nulla, ma proprio nulla, in cambio.
Concludo, comunque, con la solita nota positiva: i platani hanno cominciato a rimettere le foglie e gli ippocastani sono di nuovo molto verdi. L'acqua del mare, ieri, era limpidissima e tra poco torneranno le rondini. Torna anche tu in patria e, per favore, da' un'occhiata anche tu al paesaggio italiano e aiutaci a difenderlo dai barbari, interni ed esterni.
mercoledì 28 marzo 2012
"Fare giornalismo": what does it mean?
Sfaccendato-man è una vera miniera di informazioni. Sulle ultime tendenze del mondo del lavoro ne sa davvero assai più di me. Giusto ieri gli è arrivata questa inserzione, che riporto pari pari di seguito:
"Il compito del Redattore è quello di aprire un giornale on-line gestito in piena autonomia redazionale e commerciale ed inserito in un network il cui centro direzionale è Senigallia.
Il vantaggio di far parte di un network sono molteplici (legale, tecnologico, know how, burocratico, logistico, di avviamento, ecc). Contratto quadriennale ed impegno minimo di almeno di due anni.Servizi offerti: Set-up grafico, affiancamento editoriale, affiancamento nell'accreditamento; Servizi compresi nel canone mensile: server, banda, domino ed email; piattaforma ed aggiornamenti; archivio fotografico; consulenza legale su articoli e commenti; assistenza editoriale e tecnica".
E fin qui potrebbe sembrare quasi (quasi) allettante, anche perché, di questi tempi, chi è che ti offre un contratto quadriennale (minimo)?
L'entusiasmo scema però subito subito, leggendo le competenze richieste. Eccole:
"Titolo di studio: diploma di maturità" (e vabbè: quanti giornalisti non hanno la laurea? Di certo non è una discriminante, considerato poi quanto inutile sia il pezzo di carta accademico per chi ha frequentato facoltà umanistiche);
"Esperienza minima: non richiesta" (ah! quindi prendete anche i pivelli? gli fate fare il praticantato? Ottimo! Mmmh, mi sa che non è così...);
Requisiti minimi: (qui viene il bello) "Persona che ama fare giornalismo, curioso, attento alle vicende della sua città, capace di interpretare i fenomeni, di saperli documentare e che sappia scrivere bene; discreto e non invadente, gentile e desideroso di crescere nella professione di giornalista anche on-line. Buona dimestichezza con gli strumenti informatici e il web grazie ai quali riesca a creare relazioni e collaborazioni; anima commerciale ed intraprendente nel vendere spazi pubblicitari; capacità di lavorare in team."
Ora, pur ben sapendo che non esistono solo i grandi media e che soprattutto non tutti hanno la possibilità di accedervi per uno stage, un contrattino o per una gita con la classe, temo che nel suddetto annuncio vi sia più di un elemento di oscurità.
Qualcuno mi saprebbe spiegare che cosa significa, concretamente, "amar fare giornalismo" e al contempo essere "discreto e non invadente, gentile e generoso di crescere nella professione"?
In particolare, m'inquieta assai l'ultimo aggettivo: la generosità è sicuramente una bella dote, ma nello specifico che cosa implica? Qualcosa mi dice che la suddetta debba esercitarsi nei confronti del proprio datore di lavoro e della busta paga ricevuta in cambio.
Mi sbaglio?
Stavolta non ho voglia, ma sto meditando seriamente di cominciare a candidarmi a questi annunci e di vedere come va a finire. Sempre che mi chiamino, perché, per esperienze pregresse, qualcosa mi dice che verrò scartata in partenza. Probabilmente non mi riterrebbero sufficientemente gentile e discreta. E poi, lo ammetto, pur essendo bastevolmente intraprendente, non ho un'anima molto commerciale.
A quest'ultimo proposito: capisco che le piccole realtà editoriali debbano arrabbattarsi come possono.
Però niente mi toglie dalla testa che scrivere pezzi "gentili" e andare a caccia di pubblicità allo stesso tempo (magari presso gli stessi soggetti su cui si è scritto) crei piccoli, ma in realtà grandi, conflitti d'interesse.
Succede in continuazione, lo so benissimo, come sono consapevole anche del fatto che pure nei grandi gruppi editoriali i giornalisti debbano sottostare tutti i giorni alle leggi del proprio editore-padre padrone.
Cioè: se muore Doro Della Valle, è ovvio che tutti i media, ma proprio tutti, debbano, non solo darne la notizia (che comunque è tale in ogni caso), ma anche, se possibile, tesserne l'elogio funebre.
Poi, magari, la pagina dopo c'è una bella scarpa del noto marchio di Casette d'Ete.
Insomma, il conflitto d'interesse non ce l'ha solo Berlusconi, ma un bel discreto numero di persone.
Però, per chi lavora nei giornali più importanti, almeno, c'è qualche tutela in più (ancora per un po', almeno) in caso di pezzo un po' più invadente o di qualche improvvisa alzata di orgoglio contro lo strapotere degli inserzionisti.
Nelle piccole realtà, invece, si rischia di ritrovarsi fuori dalle balle ben prima che scada il contratto sottoscritto (già un lusso piuttosto raro), sia per la paga da fame (si aprono scommesse in merito) sia perché si è risultati in poco tempo sgraditi a qualche politicante locale che magari ha pure la fabbrichetta di materiale edile che ha sponsorizzato il sito, il giornale o quel che era.
Oppure, semplicemente, accade un'altra cosa: il team intraprendente in cui si era avuta la fortuna di essere annoverati, dall'oggi al domani, puff, sparisce nel vuoto, perché l'imprenditore di turno si accorge che non ha più i denari per l'attività. No sponsor no sito (né giornale, newsletter etc etc).
Che fine faranno i valenti redattori ingaggiati? Beh, se sono giovani giovani (come penso siano nella maggior parte dei casi), transiteranno in qualche altra magnifica realtà editoriale. Se sono più grandicelli, invece, dovranno augurarsi di aver, almeno, imparato qualche cosa. Che cosa?
Prima di tutto a non fidarsi di annunci scritti così male.
In secondo luogo, a cambiare mestiere, finché sono in tempo.
Se invece niente, insistono perché sentono di avere davvero il sacro fuoco di Montanelli, conviene che si armino di coraggio e prendano a battere porte un po' meno periferiche.
Sperando, come mi disse una volta un caporedattore di un grande giornale ormai perso di vista (ahimè) di avere una zia che li possa ospitare mentre fanno (discretamente e gentilmente) la fame come freelance e/o affini.
Un'ultima strada, infine, c'è: dopo un discreto numero di porte in faccia e di pezzi scritti (letti, montati etc etc), chi può dovrebbe chiedere alla suddetta zia un piccolo gruzzolo e usarlo per mettere in piedi da soli, senza improbabili editori alle spalle, un team di persone volenterose, capaci e con ruoli ben precisi e differenziati (chi scrive NON PUO' fare anche l'agente! Al limite giusto il direttore può trattare con gli inserzionisti, guardandosi bene dal parlarne nei propri editoriali, soprattutto non in maniera elogiativa) e tentare di reinventarsi questo lavoro, tuttora affascinante per chi abbia davvero curiosità e capacità di interpretare il mondo.
Se potessi, sarebbe proprio questo quello che farei.
E' solo un sogno?
Beh, se lo fosse, è già un segnale che sono ancora viva. E lotto ancora, anche se in un presente sempre meno limpido.
E voi come state?
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