giovedì 13 novembre 2014

Donatella Di Pietrantonio a Fermo: un miracolo destinato a sedimentare


Io credo nei miracoli che la gente può fare, canta Cristina Donà nel penultimo album: del suo pezzo ho sentito qualche settimana fa la versione acustica con kazoo, uno strumento che ho imparato a conoscere e amare con il "mio" Maestro astigiano.
Più di qualcuno mi ha accusato di essere un po' buonista, anche se in genere me lo hanno detto in tono scherzoso.

Sapete che vi dico? A volte vorrei esserlo davvero: solo così potrei, forse, risparmiarmi questa continua alternanza di speranza e disillusione.

E in ogni caso io ai miracoli ci credo per davvero.
Esattamente come canta Cristina, quelli migliori vengono proprio dalla gente che tanto ci spaventa.
Dalla medesima, certo, possono arrivare anche discrete batoste, ma che bisogno c'è di ribadirlo ogni volta?

Quel che ho vissuto sabato scorso al Centro San Rocco di Fermo, per dire, è un esempio del tipo uno (più zuccheroso del diabete).
In un luogo nel quale normalmente mi sentirei a disagio, ho invece vissuto momenti di infinita armonia. Il merito è tutto di Guglielmina Rogante, la mia cara amica professoressa-ricercatrice che fa parte del centro culturale fermano.
E' stata lei a propormi di dialogare con Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice abruzzese che ho conosciuto due anni chiamata (letteralmente) dal suo esordio nel romanzo, Mia madre è un fiume, trovato per caso in una libreria di Pescara.

Davanti a una platea attenta, in una sorta di trance concentrato, ho posto le mie domande a Donatella, favorita grandemente dall'introduzione di Guglielmina, che con la sua consueta (per me e per chi ha avuto occasione di ascoltarla) preparazione e sensibilità, è riuscita a cogliere diversi aspetti della produzione letteraria della scrittrice nativa di Arsita, nel Teramano, ma da anni residente a Penne, un incantevole borgo del Pescarese, predisponendo quest'ultima al confronto aperto e sentito che poi ha avuto seguito.

Tra le osservazioni di Guglielmina mi ero annotata, forse per dominare un po' la mia ansia, le seguenti parole: "lingua che non si autocompiace", "sguardo femminile", il terremoto aquilano come "metafora di tutti i crolli"; e poi ancora "evoluzione impercettibile dei sentimenti dei protagonisti" con conseguente "metamorfosi interiore di tutti i personaggi".
Il tutto era riferito non solo al primo romanzo, evidentemente, ma anche a Bella mia, il secondo dedicato all'Aquila e alle lacerazioni soprattutto interiori che tuttora albergano nei cittadini del capoluogo abruzzese a distanza di quasi sei anni dal sisma.

Di Donatella Di Pietrantonio Guglielmina riconosceva poi la sua appartenenza fortissima all'Abruzzo, nella lingua "pietrosa" e nell'attenzione quasi inconscia alla memoria collettiva della sua gente: una gente dedita alla cura della terra e alla pastorizia, rimasta in massima parte povera per millenni, oggi strappata a quei ritmi antichi da una globalizzazione forse ancora più disorientante.

Come si riemerge dal lutto, interiore e sociale, sembra chiedersi pagina dopo pagina Donatella?
Quando si comincia davvero a farlo, le ho chiesto a mia volta a un certo punto del nostro dialogo?

Donatella lo ha mostrato con precisione in entrambi i romanzi.
Ho trovato davvero illuminante quando, riferendosi al primo, lo fissa in quell' "adesso basta", che pronuncerebbe dentro di sé l'io narrante, la figlia di Esperina Viola, colei che deve accettare, volente o nolente, di non essere stata sufficientemente amata dalla madre che ormai le si presenta come un albero secco sotto la cui ombra non si può più giustificare.

E ho in cuor mio ringraziato moltissimo Donatella quando ha esposto pubblicamente il rovescio della medaglia di ogni amore, persino di quello verso i figli. Non c'è alcun "ti amo" che non nasconda anche un "ti odio", ha detto proprio la scrittrice. Ed è solo oggettivando i nostri sentimenti, pure i più crudeli, che possiamo cominciare a guarire.

Non ha, tra l'altro, neanche avuto paura di confessare i suoi lunghi anni di analisi: per lei sono stati anzi fondamentali per imparare a scrivere per davvero.

E io credo che abbia proprio ragione: la rabbia, per esempio, va riconosciuta, va per l'appunto "oggettivata" in qualche maniera, per poterla raccontare.
In parte, mi è successo così quando ho narrato su questo blog del terribile incubo ospedaliero.
Temo però di non essere ancora del tutto guarita: ogni tanto, mi sveglio nel cuore della notte, e mi ricordo di tutto.

Mi ha molto sollevato, pensandoci per un breve flash, durante l'incontro di sabato scorso, sentire dalla bocca di Donatella la definizione che Ennio Flaiano, altro grande abruzzese, benché emigrato nella capitale, dava del medico contemporaneo, da lui chiamato "il cretino specializzato".

E mi ha emozionato alquanto percepire l'imbarazzo che la scrittrice sottolineava di aver provato nel presentare la sua storia aquilana nella città ferita. Chi sono io, si è detta, per parlare di un dolore che non ho vissuto direttamente?

Ed è esattamente per questo motivo che bisognerebbe sempre pesare le proprie parole, soprattutto quando presuppongono un pubblico.
Chi scrive per mestiere ha una grande responsabilità, insomma. E anche chi lavora con il dolore altrui.

Per tutte queste ragioni, sono davvero contenta del miracolo di un incontro destinato a sedimentare.
Sono certa che mia mamma, con me nella gonna che indossavo e non solo in quella, è stata felice per me.

Alla prossima, belle donne.
:-)

domenica 9 novembre 2014

I nipoti, i fratelli Dalton e il senso della meraviglia



Nell'estate più desolante che abbia finora vissuto, ho fortunatamente passato qualche giornata in compagnia dei nipoti. Le più belle (oltre che le più faticose) sono state quelle in cui ho esercitato in maniera ufficiale il mio ruolo di zia.

Non erano mai stati fuori casa senza entrambi i genitori: se l'avessi realizzato prima di accettare di ospitarli qui sulla torre fermana, probabilmente mi sarei fatta cogliere da una smisurata ansia da prestazione. Avrei comunque acconsentito, questo sì, ma non mi sarei fatta così entusiasticamente travolgere.

A farne le spese, è stato principalmente lo zio Bipede, che dopo una mattinata di tuffi pazzi, si è ritrovato con la schiena bloccata. Io invece ho dosato meglio le energie, arrivando ancora intera, pure se un tantino ammaccata (soprattutto internamente) alla fine della loro trasferta in terra marchigiana.

A pranzo e a cena, gli unici momenti di pausa: davanti ai Dalton, i cartoni tratti dalla saga di Lucky Luke che mandano a ripetizione su uno dei canali satellitari dedicati all'infanzia.
Non sono mai riuscita a guardarne un episodio per intero, né durante la loro vacanza qui da me, né a Francavilla. La tv accesa sui quattro fratelli galeotti, disegnati in scala, come le canne di un organo (come ha giustamente osservato il mio cognato tedesco), è infatti stata utilizzata da mia sorella innanzitutto, ma alla fin fine un po' da tutti gli adulti (ahimè la maggioranza) di famiglia per drogarli un po'. E zittirli.

Durante le mezz'ore di Dalton, come succedeva negli anni passati con i Barbapapà, le Banane e qualche altro cartone, genitori, nonni (quest'anno solo il nonno) e zii ne approfittavano per sparecchiare, lavare i piatti. E per chiacchierare di argomenti non strettamente legati al meraviglioso, quanto totalizzante, mondo under 10. 
Salvo essere di tanto in tanto esortati, con un certo tono di rimprovero, ad abbassare la voce dai suddetti principini stravaccati in poltrona con occhi a palla e telecomando sotto i dolci (e insabbiati) piedi.

Sia come sia, quei pochi frammenti dei Dalton che ero riuscita a cogliere mi erano piaciuti assai.
Finalmente, mi dicevo tra me e me, un cartone non buonista, non melenso come quelli che propinano alla femmine, persino un pochino rude, all'inglese maniera.

Dentro di me, insomma, mi sentivo orgogliosa di quei due, le facce vispe nonostante l'ipnosi catodica.
E alla fine ho gettato la maschera. Mettendomi pure io a guardare i Dalton.

E' successo domenica scorsa, a casa dei miei genitori. 
Sibillinamente, dopo colazione, il nipote maggiore ha cominciato a parlarmi del blues scoperto con la madre durante i giorni di influenza che aveva appena passato.

Si trattava, mi raccontava J., della sigla di apertura di un cartone scoperto per caso su Youtube. Voleva a tutti i costi farmelo vedere, idem il fratellino D., una teppa con due occhioni marroni grossi come castagne.

E così abbiamo fatto. 
Avremmo dovuto limitarci alla sigla. E invece.

Non ho mai riso così sinceramente davanti a loro
Ignoravo che si trattasse di un lungometraggio realizzato nel 1978, durante gli anni della mia infanzia. La sceneggiatura è di René Goscinny, lo stesso di Asterix, dai miei nipoti amatissimo, indottrinati in questo dal padre, grande cultore del Gallo più simpatico che c'è.

Guardatelo, quando avete un po' di calma, e lasciatevi conquistare dalla storia. 
Io l'ho fatto spontaneamente ed è stato davvero un regalo grandissimo che poteva venire solo dai bambini. Dai miei nipoti, in particolare, certo, ma quel che voglio dire è un'altra cosa.

Invecchiando, ci si stupisce sempre meno, senza accorgersene.
Per indole amo entusiasmarmi e quando passo troppi giorni, mesi addirittura, senza provare meraviglia per qualcosa, mi sembra di spegnermi.

Chi ha a che fare con i bambini, insomma, ha più occasioni di non smarrire questo senso della meraviglia, che forse potremmo considerare come il settimo senso, il più vitale di tutti. 

Per questo, forse, mia mamma amava così tanto il suo lavoro di maestra. 
Oltre la cretina burocrazia, oltre l'imbarbarimento del sistema nazionale d'istruzione, restano loro, i bambini, così pieni di futuro, l'unico dal quale si può attendere qualche cambiamento.

Non tutti i bambini sono uguali, certo. Qualcuno già mostra i segni dello stronzo che diventerà, ma si può imparare qualcosa pure dal bullo di turno. Ed è una grande responsabilità occuparsi proprio di quest'ultimo.

Con J. e D., per certi versi, è proprio facile entrare in sintonia.
E però bisogna stare attenti. E, per esempio, non nascondere (troppo) chi si è, i propri limiti e i propri dolori. In questo il nonno è più bravo di me. Noto che i nipoti lo amano, anche quando quest'ultimo li rimprovera. 

E poi, certo, bisogna educarli.  
E insegnare che non si dice idiota a tutti, come fanno ogni due per tre i fratelli galeotti.

E però, sotto sotto, un sacco di volte c'hanno ragione loro... solo che non glielo si può dire.

Buona visione, amici.

mercoledì 5 novembre 2014

Tempus fugit, ma finché c'è vita...




Purtroppo non riesco a trovare la scena di Totò che gira per agenzie alla ricerca di alloggio, per cui rimedio con questa.
Tra gli appartamenti che ci avevano proposto, ce n'era effettivamente uno che si affacciava sul camposanto.

E vabbè.
L'appartamento di cui ho parlato ieri è saltato: pare che il secondo agente l'abbia venduta al prezzo più basso, quello che aveva proposto a noi, a un terzo. Mio marito non ci crede: più probabilmente, visto il casino che c'era dietro, ci hanno tagliato fuori. 
Comunque sia andata, è andata.

Nel frattempo il tempo scorre (tempus fugit, è proprio il caso di dirlo), ma siamo ancora vivi. 
Almeno sembra.

Grr.

martedì 4 novembre 2014

AAA, casa cercasi... come Totò



Oggi sono arrabbiata. Arraggiata alla Montalbano.
E quando sono in questo stato rischio di dire qualche corbelleria.
E un sacco di parolacce (che ho effettivamente detto).

A farmi inferocire, ci ha pensato in parte la burocrazia, che detesto con tutta me stessa, in parte le sole che mi auto-infliggo. Firmando.

Come sapete, ho firmato il dannato contratto per il trattamento ai capelli che poi non ho mai fatto (né mai farò), con il risultato che ora sono a un passo dalla causa (se me la fanno loro, eh: perché di certo non gliela intento io. Malaccorta sì, ma non fessa).

Non solo. Ho firmato ancora, stavolta in un'agenzia immobiliare, dove la regola è "prima firmi e ti impegni a concludere eventualmente l'affare con me e poi vedi la casa".

Quell'appartamento aveva "good vibrations": già avevo cominciato a fantasticare su come disporre i nostri scombinatissimi mobili. Perché, comunque, almeno per i primi (e i secondi) tempi, mi dovrò comunque tenere la mobilia raccattata tra casa di mia nonna, dei miei e di mia suocera.
Come ebbe a dirmi una conoscente di queste parti che ormai non frequento più, il nostro arredamento è composto in massima parte da "mobili vecchi".
O, più elegantemente, vintage.

E insomma. Sarei stata ben felice di trasportare tutta la mia roba demodè in sessanta metri quadri (con garage).
Avete presente nei cartoni animati la nuvoletta dell'immaginazione sul tizio che sogna a occhi aperti e di come sparisce, con suono annesso (tipo POUF!) quando poi torna alla dura realtà?
Ecco.

Il giorno appresso vado a vedere tre appartamenti con un'altra agenzia (messaggio subliminale per i miei ipotetici creditori: non avrete neanche un euro dei miei risparmi. Pago tutti, ma non voi) e che succede?
Dopo le prime due autentiche stamberghe, l'agente ci conduce su una strada ridente, in lieve salita, sotto un sole quasi estivo. Da lontano il mare sempre più blu. La riconosco immediatamente, solo che non ci posso credere. No, dico, sarà un altro appartamento sulla stessa via, ma pensa tu la coincidenza.

Era proprio lo stesso. Il secondo agente che ce la mostra, però, ha anche le chiavi del garage. Che non è una piazza d'armi, ma è più che sufficiente per confermarmi nei miei progetti di trasloco (qualche mobile vecchio avrebbe finalmente trovato la sua più consona collocazione. A vantaggio dei pezzi migliori della mia generosa famiglia di provenienza. Ingrata che non sono altro).

Trasecoliamo ulteriormente quando il mediatore chiama il venditore e, mettendocelo in viva voce, gli dice che ha due clienti che potrebbero prendere la casa praticamente subito a... circa quindicimila euro di meno di quelli che ci aveva prospettato il primo  agente.
E quello risponde: "E' andata".

Peccato che io (...) mi sia impegnata formalmente (dimenticavo la fotocopia del documento di identità. Sì, ho fatto anche questo) a concludere EVENTUALMENTE l'affare con quello del giorno prima.

Torniamo a casa, il Bipede ed io, piuttosto disorientati. E mò che succede?
Mi consulto con mio padre, nel fine settimana parlo pure con mio cugino avvocato, quello con il quale a breve andrò in tribunale per via dei miei disgraziati capelli, e niente: tutti mi dicono che una "roba acsè" non l'hanno mai sentita.

Eppure succede anche questa. Garantito.
Quindi?
Beh, per il momento posso solo dirvi che da good le mie vibrations sono diventate very bad.
Anche perché il venditore ha detto al secondo mediatore, che ci ha prospettato un prezzo e una provvigione più bassi che lui, proprio lui, non ne vuole sapere nulla.

Ma come? Chi ha dato l'appartamento a più agenzie? Melilla, o come diavolo si diceva a Chieti una volta?
Oltretutto, scorrendo gli annunci, mio marito ha fatto un'altra scoperta: l'appartamento è proposto pure da una terza agenzia!
Raccontando il casino a una mia cara amica di palestra, consideravo: ma quanti duplicati della chiave circolano in questo momento?

Ripensando, ridendo un po', stamattina al dubbio che le avevo esposto, mi sono così ricordata di Totò cerca casa, il fenomenale film di Monicelli e Steno con Totò nella parte di uno sfollato con moglie e figli.
Prima del tragicomico finale (che non vi rivelo, casomai non l'aveste mai visto), Totò si imbatte in una banda di ladroni che gli vendono, dietro pagamento del milione vinto dalla moglie grazie a un concorso a premi, un lussuoso appartamento che danno in affitto anche a un gruppo di turiste ungheresi, a un commerciante cinese e ai coniugi arabi da Totò già incontrati (scontrati sarebbe più esatto...) in un momento precedente del film.

S'intuisce che la faccenda debba finire a schifìo. Peccato che nel nostro caso non si tratti di un film. Forse. Come scrivo spesso.
Perché certe volte mi sembra davvero che la realtà sia tutto un cinema, non di grande qualità. Esattamente come la maggioranza dei film italiani. E non sto parlando della da me molto amata pellicola con cui apro questo post.
E non ditemi che sono disfattista e che nel paese d' 'o sole e 'o mare si vive sempre bene, perché allora sì che mi arrabbio per davvero.

E comunque, una cosa è certa.
Non firmerò mai più niente.
Anche se si dice che non c'è due senza tre...

AIUTOOOO!

mercoledì 29 ottobre 2014

Paolo Conte e le ore lievi (grigio-celesti) di cui abbiamo bisogno



Giornata grigiastra, com'è piuttosto frequente in questo periodo dell'anno.
L'aggettivo declinato in "stro/a", mi fa sempre pensare a Paolo Conte, come consideravo l'altro giorno con una cara amica del Nord. Nelle parole e negli atteggiamenti di quest'affascinante donna, ci vedo molto del Maestro astigiano, "even though", sebbene, lei e lui abitino in due zone del Settentrione d'Italia molto diverse.

Quanto vorrei andare nell'Astigiano, la terra di nascita dell'avvocato baffuto. Nelle sue canzoni, infatti, oltre agli zzzarazz e alle note alla Duke, ci vedo tanta nebbia ghiacciata e lunghe notti brumose.
Dicevo sempre all'amica contiana nell'anima, che in Snob, il nuovo album dell'amato artista piemontese, non ci sono brani che mi abbiano più di tanto commosso. Il che non significa affatto che non mi sia piaciuto.
Come ho scritto nell'altro post che gli ho di recente dedicato, l'ho solo trovato più leggero, come se l'avvocato, lavorando di gomma, abbia volutamente sfrondato le sue note e le sue parole di tutto ciò che potesse risultare troppo enfatico.

Non siete d'accordo? Pazienza, me ne farò una ragione.
Però, se ci pensate un attimo, prendete, per esempio, Tra le tue braccia, da Nelson, e L'amore che da Psiche. Entrambe, nella costruzione della melodia e nei testi, vorrebbero spingerti a esacerbati sospiri d'amore, seguiti da lacrime di disperazione amara.
In Fandango, invece, quel "non mi guardare, non farmi pensare più a te", assecondato (anzi: affiorato sul) dal tema musicale prescelto, sembra dirci l'esatto contrario.
Basta lacrime, basta lacerazioni del cuore, voltiamo pagina.

Snob, in definitiva, lascia le emozioni forti sullo sfondo, preferendo tinte pastello sfumate, celestino-grigiastre, per l'appunto. Su tutto, mi pare proprio di vedere il sorriso da gatto di Conte, che deve averne viste talmente tante da desiderare solo l'armonia.

Snob è dunque, per me, un disco dispensatore di pace, anche esteriore.
Mi fa sorridere, sognare, a tratti persino ridere.
Tutt'altre sensazioni ho provato al contrario con canzoni come Gioco d'azzardo, Come mi vuoi?, Elegia (una delle più belle scritte dal Maestro) e qualcun'altra.

In Snob ci vedo tracce di Stai seria con la faccia ma però (Wanda, per farla breve), di Via con me, pezzo perfetto e immortale, e pure di un po' di "napule" sabauda che tanto mi diverte.
L'unico brano che, forse, potrebbe alla lunga farmi scendere qualche furtiva lacrima è Tutti a casa, un walzer (almeno penso sia un walzer!) che mi dà una nostalgia per un'Italia che non ho mai vissuto che davvero non saprei spiegare. Parlo dell'Italia dei film di Don Camillo, di Totò, delle cucine povere come quelle di mia nonna, il riscaldamento precario (come il mio di adesso...) e cose così.

C'è infine una canzoncina tenera che sembra parlare direttamente alla sottoscritta, come di sicuro penseranno molte signore e signorine innamorate della musica del Nostro.
Parlo, per l'appunto, di Signorina saponetta, allietata dal ticchettio della macchina per scrivere, una Olivetti, come c'è scritto nelle note del disco, chissà se proprio la stessa che aveva anche mio padre, sulla quale mi dilettavo da bambina.

Anche in quel caso niente lacrime, solo occhi che si illuminano, alla Amelie che, ahimè, sono stata per davvero.
Che cos'altro posso aggiungere?
Meno male che ci sei, Maestro.
Di ore lievi abbiamo bisogno. Di evasioni innocenti pure (Battisti era un altro che la sapeva lunga).
Per sopportare meglio le pesantezze del tempo, troppo spesso privo di "ore inglesi".

Di nuovo buon ascolto, amici.

giovedì 23 ottobre 2014

Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori




A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.

Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.

Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.

Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.

Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.

Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.

Buoni giorni, amici.

lunedì 20 ottobre 2014

L'energia vitale di mia mamma e l'intelligenza di Cristina Donà


Mio padre non mi ha riconosciuta. L'ha guardata, piccina e scuretta tra le mie dita, e ha detto: "e chi è?". Ma come chi è?
A mia madre non sarebbe mai successo.
Ho ritrovato questa fotografia in un porta-gioie sepolto in fondo all'armadio, sotto i suoi vestiti che dovevo selezionare.
Confesso di aver provato più ansia che dolore: man mano che soppesavo fogge e modelli degli abiti più vecchi di mia mamma, mi sentivo quasi come un addetto qualunque del Mercatino, alla ricerca di eventuali falle nelle stoffe.

E poi c'è stato anche un momento divertente: accanto al porta-gioie bianco avorio, lavorato come un ciocco di legno intagliato, c'era una busta rossa rettangolare, di quelle che un tempo contenevano gli Lp. La prendo, convinta di trovarvi per l'appunto qualche vecchio 33 giri dei miei. E invece no.
Apro la scatola quadrata bassa, dalla copertina rigida, e chi ti rivedo? Juan Del Diablo, alias Palomo-qualcosa, l'attore della celebre soap opera Cuore Selvaggio, da mia madre amatissima. Raffigurato in pose vagamente sexy, una per ogni mese dell'anno 1995, il capelluto attore prematuramente scomparso mi ha strappato un sorriso.
La scatola conteneva anche un cd di sue canzoni, che il giorno dopo ho fatto partire dal computer di mio padre. Sentendo la musica, quest'ultimo è venuto a vedere: "che stai a fà"', mi ha chiesto.
Gliel'ho spiegato.
Ho buttato il calendario, ma non il cd.

Nel 1995 mia mamma aveva 53 anni: da come me la ricordo io, pensando almeno a una foto di tre anni prima che ho ritrovato per caso non rammento più dove negli ultimi mesi della sua vita, aveva pochissime rughe sul suo viso magro e allegro.
Forse proprio per questo motivo, chissà, ai tempi di Cuore Selvaggio sognava ancora l'amore romantico, forse pure la passione, nutrito anche da una grande attrazione per i paesaggi esotici e colorati.
Ricordo che quasi per giustificarsi della sua simpatia per Juan e per la storia con la sua amante fedifraga, mi diceva con foga che le piacevano moltissimo le ambientazioni: il Messico doveva apparirle una specie di Eden dei desideri perduti.
Forse proprio in quel periodo, ma non ne sono certa, le regalammo anche un dizionario di spagnolo o forse un manuale.
Molti anni dopo, dopo l'avvento del satellite, aveva preso l'abitudine di guardare le soap direttamente in spagnolo. Orgogliosa, mi diceva di aver imparato anche qualche "parolina".

Proprio gli ultimi mesi le ho dato in prestito il mio manuale di John Peter Sloan e insieme abbiamo fatto anche qualche esercizio.
Era malinconica, mia mamma, e anche un po' bambina.
E profondamente innamorata di noi figlie.

Rivedermi in quella foto-tessera così gelosamente conservata in fondo all'armadio, in mezzo a strani e disparati oggetti (la chiave di una camera, non so quale, un anello spezzato, dei bottoni spaiati), affianco al calendario di Palomo, mi ha intenerito profondamente.

Non ho pianto: le uniche lacrime che stavo cominciando a versare sono state ricacciate indietro dalla telefonata di mia zia. In quel momento stavo guardando un altro porta-gioie, quello sul comò nel quale io stessa ho depositato la sua fede e il suo orologio, accanto a un'altra foto-tessera, sempre vecchia, stavolta di mio padre, e bigiotteria varia.
Scavando, ho tirato fuori una strisciolina di carta di giornale su cui c'era scritto "Santurbano senza rivali". Ho sorriso pure lì. Non ho invece potuto trattenere la tristezza davanti all'aggiunta a pennarello di mia mamma sulla sua "intelligenza sopraffina". Scherzava spesso in questo modo con mio padre.
La telefonata è sopraggiunta proprio in quel momento, per cui niente pianto, giusto qualche lacrima sugli occhiali.

Stamattina ho riascoltato la mia telefonata con Simona Atzori, la ballerina dalle braccia rimaste in cielo, come aveva scritto Candido Cannavò, la quale ha dedicato il suo secondo libro, intitolato Dopo di te, alla mamma scomparsa quasi due anni fa.
Tra le cose intelligenti che mi ha detto c'è proprio la questione della durata del lutto, delle ondate che lo compongono, ciascuna con modalità e tempi differenti per ognuno di noi.
Oggi pomeriggio dovrò scriverla, ma prima di fissare sulla carta il suo percorso, verso cui provo grandissimo rispetto, ho sentito forte l'urgenza di ripassare di qua e fissare quel momento, uno dei tanti che stanno segnando il mio "dopo di te".

Ieri sera ho assistito al bellissimo concerto di Cristina Donà e Saverio Lanza nel teatro comunale di San Ginesio, e la mia mente è corsa a lei, che ha fatto in tempo a vedere la sintesi dello spettacolo di Massimo dedicato a Enzo Tortora, tenutosi la scorsa primavera nel medesimo luogo. Il suo entusiasmo commosso mi aveva, adesso posso ammetterlo, un po' sorpreso, conoscendo la sua scarsa propensione a lasciarsi andare alle emozioni più forti.

Eppure, nel suo intimo, amava eccome il coinvolgimento forte: altrimenti non avrebbe conservato per così tanti anni Juan Del Diablo. E anche me, in quella fotina bellissima, come possono essere solo i bambini.

Era dolce, mia mamma, oltre che molto aspra, quando voleva esserlo.
Era viva, era generosa, e attraversata da forti, fortissimi sentimenti.
Possedeva un'energia vitale che penso di aver ricevuto in eredità.
L'energia di cui parla Cristina nelle sue canzoni, quella che ci mette nell'interpretarle, donandosi (letteralmente) al pubblico con grande intelligenza.
Solo chi ha molto sale in zucca e forti ideali, voglio dire, è in grado di svelarsi nascondendosi.
Ed è forse questo il segreto del fascino vero, di quello che vince il tempo, molto più di una buona crema anti-rughe.

Ringrazio molto la vita per avermi dato una madre così e un gusto, posso dirlo, non facile da accontentare.
Ringrazio Cristina e il suo partner musicale per avermi mostrato concretamente che cosa significhi fare bene, molto bene, quello per cui si è nati.
Anche mia mamma è stata un'ottima maestra. Ed è una gran cosa essere sua figlia.


Ciao, mamma.