sabato 23 agosto 2014

Le foto di famiglia e l'amore che non muore


Per fortuna non era andata persa. Per fortuna ci passiamo quasi sempre le fotografie che scattiamo.
L'avevo cercata tanto nei giorni in cui volevamo scegliere l'immagine ricordo, ma niente, era sparita dall'hard-disc esterno. Sul pc, ovviamente, non c'era: quello precedente all'attuale ha smesso di funzionare di punto in bianco, senza preavviso.

E invece eccola qui. Bellissima. L'ho scattata io, ma non conta, in fondo. Anche se, naturalmente, sono orgogliosa di aver documentato moltissimi momenti felici.
Forse è diventata un poster, forse lo diventerà presto. In ogni caso, guardarla m'immalinconisce e insieme mi fa sorridere.

Quei due piccini oggi sono così diversi e uguali. Non sembra possibile che siano stati tanto minuscoli. Da poco ho provato l'esperienza di zia ospitante: era la prima volta che i nipoti passavano più giorni senza entrambi i genitori. E' stato impegnativo, certo, ma così coinvolgente da lasciare un vuoto disorientante.
Pure i gatti ne hanno risentito: il pomeriggio dopo la partenza erano distrutti. Felici anche, probabilmente, al contrario degli zii.

Ho finito da sola il numero delle Cipolline che hanno dimenticato: mi ero talmente compenetrata nella parte della voce narrante che non mi andava di lasciare la storia a metà. Ieri, però, il nipote piccolo mi ha intimato di riportargli il libro. Certo che lo farò, così almeno posso finire di leggerglielo.

Ho fatto, molto parzialmente, le veci della nonna.
Il piccino, quello che all'apparenza sembra già un ultrà, mi ha parlato delle letterine che quando era ancora più piccino gli scriveva la nonna. Gli ho risposto che le scriveva pure a me, anche adesso che sono più che grande. Mi è sembrato che si sia stupito, ma forse non lo era.
La nonna era speciale.

Non riesco ad aggiungere molte altre parole, se non l'ennesimo grazie per tutto l'amore che ho ricevuto e che malamente cerco di dare a mia volta. Non a tutti, ovvio, ma a una buona parte di persone sì. Sono fatta così, del resto, non posso sempre vergognarmi di come sono.

Aggiungo solo un ps per mia sorella: La gita di mezzanotte di Roddy Doyle è stato davvero un bel regalo. Per chi non lo conoscesse, parla di quattro generazioni di donne che si incontrano: una di loro è un fantasma. Sarebbe una storia per ragazzi, ma va benissimo anche per ex-ragazzi come me e come tutte quelle persone che non sanno (ancora o mai) spiegarsi perché si debba morire.

Grazie, Linda. Ti voglio bene. Anzi: LE voglio bene (lei sa perché scrivo così).
E adesso basta smancerie.
Tsk.

giovedì 7 agosto 2014

Cristina Donà e l'amore che vince



Quest'anno ho ricevuto alcuni regali del tutto inaspettati.
Mi riferisco in particolare a un cd di Cristina Donà ricevuto a distanza di due anni almeno dall'acquisto: si chiama Torno a casa a piedi. Ringrazio ancora Simona per il pensiero, anche perché, probabilmente, è giunto al momento giusto. 
La canzone che linko sopra, però, è tratta dal primo lavoro della musicista originaria di Rho (sto parlando di Tregua), classe 1967, dotata di una voce sorprendente, uscito nel 1997. 

Personalmente, la trovo anticipatrice di un brano tratto dall'album che mi ha regalato la mia ex compagna di scuola. 
Sto parlando di Un esercito di alberi che trovate linkato in fondo, in cui, in maniera simile al primo brano, si parla di una relazione d'amore.

Non essendo in grado di giudicarla da un punto di vista puramente musicale, posso solo fornirvi la mia impressione filtrata dai testi scritti per la Donà da suo marito (almeno a quanto mi risulta, relativamente all'ultimo disco), che forse ai tempi del primo disco era ancora il suo fidanzato (ma non ne ho la più pallida idea, naturalmente).

Ebbene: trovo enorme la differenza tra il primo modo di parlare d'amore nell'album d'esordio e in quello del 2011. 
Nel primo Cristina è una giovane donna che impara a conoscere l'uomo che ama attraverso la sua pelle. Nel secondo, è una donna (ma sarebbe forse più esatto dire un uomo, visto chi le scrive i testi) che riconosce il suo amore ascoltando il rumore degli alberi.

Trovo davvero illuminante la trasformazione della visione del sentimento più importante nella vita di una persona. Siamo corpo (oh, se lo siamo), ma la nostra corporeità esce fuori da noi e diventa più vera quando ci fondiamo con la natura, quando impariamo a rispettarla, anche, comprendendo davvero nel profondo che cosa significhi essere mortali.

Non so, non posso parlare per lui, ma qualcosa mi dice che mio padre ami mia madre ancora più di prima. E lo fa anche attraverso noi figlie, nel suo modo insieme discreto e un po' goffo di darci retta, facendosi anche un po' violenza.

Oggi non ero con loro al cimitero, per il secondo mese dal nostro addio, ma c'ero attraverso il vento del mare, il profumo delle onde e il calore sulla mia pelle.

Le stelle buone esistono e ci dicono un sacco di cose anche quando non sono più scritte sulla schiena dell'amato, dell'amata. Lo fanno attraverso i pensieri che semplificano e gli angeli che Cristina dice di incontrare in un altro brano del suo primo album.

Felice di averla conosciuta adesso, sì. 
Un giorno parlerò anche delle sue canzoni più metropolitane e dell'ironia un po' amara con la quale descrive la solitudine della vita di città.

Mi piace però adesso dedicare queste due canzoni a tutte le persone che si amano, oltre il tempo e lo spazio. Buon ascolto a tutti. E ciao, cara mamma.

martedì 22 luglio 2014

Il mio sogno verde comincerà





Stamattina sognavo di piangere al telefono con un tipo che non vedo né sento da anni. Si tratta di una persona con cui ho lavorato anni fa, quando ancora credevo nel giornalismo sociale.
Mi spiace, ma non ci credo più, anche se le ultime cose che ho fatto hanno più o meno riguardato lo stesso ambito dal quale sono partita.
Tutto ciò che scrivo, lo scrivo onestamente, sia chiaro, ma mi sono ormai convinta che non esista il giornalismo dei buoni e quello dei cattivi. Esiste, sempre e comunque, il buono e il cattivo giornalismo. E il mio è un buon esempio di lavoro fatto con il cuore e la testa, ma non è giornalismo.

Non lo è semplicemente perché non scrivo per nessuna testata importante, che è l'unica maniera per far passare il proprio messaggio. Almeno in una società come la nostra, sempre più rapida e poco incline all'approfondimento. Chi approfondisce, voglio dire, è un numero limitato di persone; io stessa, quando ho più tempo, mi accorgo di quante cose ignoro dell'attualità.

Nel mio sogno chiudevo la telefonata dicendo "tanto cambierò lavoro, quindi che cosa vuoi?". Però piangevo, piangevo come una bambina, consapevole che il sogno degli anni d'oro se ne sia andato con il tempo volato via.

Adesso ne comincerà un altro. I buddisti sarebbero fieri di me per questa mia auto-iniezione di coraggio. Sì, ne comincerà uno nuovo, verde, come uno dei miei colori preferiti. Più sereno, più pratico, anche.
Cambierò lavoro. Ci proverò con tutta me stessa. Sperando di poter continuare comunque a scribacchiare, questo sì. Perché senza le lettere rotolanti io non ci so proprio stare.

Non chiedetemi che cosa farò. Sono curiosa anch'io di scoprirlo.
Ma il sogno verde sta per arrivare. Anche se questa canzone parla di un commiato, non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci a un'esperienza che doveva comunque finire.
Tutto finisce, tutto passa. E tutto ricomincia sotto un'altra forma. E da un'altra parte.
Vero, mamma?

mercoledì 16 luglio 2014

Joe Cocker e il presente da vivere. Con amore




Mi è tornato in mente un episodio del liceo, direi anche inevitabilmente, visti gli incontri di quest'ultimo periodo.
Dovevo essere in quarta ginnasio, al massimo in quinta. L'anno dopo, infatti, ero già entrata in una fase diversa della mia adolescenza, un tantino più complicata. Ma neanche tanto (all'università compravo le sigarette e poi le regalavo, figuratevi un po' che giovinezza trasgressiva ho avuto).

E insomma: sul diario avevo trascritto la traduzione di una canzone di Nikka Costa, della quale ho già parlato qualche tempo fa.
Perché ci ho pensato? Per via della canzone che vedete sopra e dello studio dell'inglese che sto tentando di non mollare.

Si tratta in questo caso di Joe Cocker in "You don't need a million dollar", non ti serve un milione di dollari, che ignoro se sia una cover di qualche pezzo più vecchio o un brano scritto per il grande interprete inglese per l'album che lo contiene, uscito, se non vado errata, un paio d'anni fa.

L'ho ascoltata, insieme alle altre del cd, un sacco di volte: ne ho le versioni mp3 sulla mia scassata pennetta (leggi, chiavetta) usb, che uso spesso quando viaggio e quando cammino per raggiungere mio zio al percorso salute del Campus di Chieti.

Mi piace moltissimo la pronuncia di Joe Cocker: secondo me, per capire bene come si aspira il "th", basta sentirlo cantare.
Detto ciò, a un certo punto, durante il ricovero di mia mamma, ho cominciato ad ascoltare con attenzione il testo della canzone di cui sopra.
Non credo sia per forza il dialogo tra un lui e una lei: volendo potrebbe essere anche quello tra un genitore e un figlio. O comunque io ce l'ho voluto vedere per le ragioni che sapete.

Oggi come circa trent'anni fa (poco meno, ma comunque una vita fa), vi trascrivo la traduzione di una canzone. Come dico spesso, il carattere non si cambia.
Scusatemi se non sarà perfetta (sono tuttora ancorata al livello intermedio superiore), ma a me la perfezione sta un po' sulle balle (ottimo alibi).
E in ogni caso, poi ascoltatela. Merita, soprattutto per il crescendo finale.

Non hai bisogno di un milione di dollari
per svegliarti nudo la mattina
e per sorriderci a vicenda mentre condividiamo una tazza di caffè

non hai bisogno di essere una star del cinema
per vedere il cielo di notte sul tuo soffitto
buttami un barattolo di vernice e ci dipingeremo insieme un po' di stelle

non hai bisogno di sciogliere tutti i tuoi problemi come cioccolatini 
sul tuo sedile da passeggero
di un treno in un'afosa giornata d'agosto

Hai tutto
hai davvero tutto ciò 
di cui hai bisogno
proprio adesso, proprio ora

Hai tutto
hai davvero tutto ciò 
di cui hai bisogno
proprio adesso, proprio ora
con me

Se potessi vedere come ti invidiano
mentre passi con i tuoi stivali da cowboy
che hai scovato tra un mucchio a un dollaro al mercato delle pulci (letteralmente: la terra dei rifiuti, wasteland)

Se tu potessi vedere quello che vedo io
come una sfera di cristallo nei tuoi occhi blu
chiedimi del nostro futuro e di ogni cosa che abbiamo sognato insieme

non hai bisogno di sciogliere tutti i tuoi problemi come cioccolatini 
sul tuo sedile da passeggero
di un treno in un'afosa giornata d'agosto

Hai tutto
hai davvero tutto ciò 
di cui hai bisogno
proprio adesso, proprio ora
con me

Non hai bisogno di un milione di dollari
per gettare via la tua testa tra le risate
per dirti che tutto andrà bene
proprio bene
Davvero, non c'è problema, sorprendente, ogni momento è il momento

Puoi scegliere come sentirti
tu decidi che cosa è reale, tu puoi vivere il più vero degli amori
puoi essere la star del tuo film
puoi scrivere questa canzone e cantarla tu a me
Puoi vedere che il mondo non è niente se non ami
Puoi vedere che il mondo non è niente se non ami
Puoi vedere che il mondo non è niente se non ami
Amore, amore, amore

Perché tu hai tutto 
ciò di cui hai bisogno
davvero tutto ciò
di cui hai bisogno
proprio qui, proprio ora, con me
proprio qui, proprio ora, con me.


Mi piace chi invita a vivere il presente, con consapevolezza. E amore.
Non è facile, ma penso ancora, nonostante tutto, che sia l'unica strada possibile.
Per ciascuno di noi.
Buoni giorni d'estate a tutti. 

sabato 12 luglio 2014

Peperoni rossi dell'amore. Che non finisce


Vi giuro, non avrei mai pubblicato questa immagine solo un giorno fa.
L'ho scelta per il mio desktop perché la trovo così intima e bellissima.
Mia mamma è stata una bella donna, fuori e dentro.
Non lo dico per il legame che c'era tra noi, è un fatto oggettivo.

Ho scattato questa fotografia due anni fa. Ho appena controllato la data di acquisizione sul pc: era il 22 settembre 2012. Non sono ancora due anni. E lei, probabilmente, era già malata, ma non lo sapeva.

Lo avrebbe, lo avremmo, scoperto più o meno un mese dopo, subendo uno shock che può immaginare solo chi ha vissuto un'esperienza analoga.
Di questa brutta malattia si ammalano davvero in troppi e a tutte le età.
Lo diceva sempre lei, che ha affrontato la cura con una forza in fondo prevedibile, visto il suo carattere. La sala d'attesa lassù al quattordicesimo livello era sempre zeppa di gente, soprattutto il lunedì mattina. Io ci sono stata poche volte, esentata, per così dire, dal ruolo di accompagnatrice a favore di mia sorella Linda, più capace di cavarsela con le pastoie burocratiche e di altro genere dell'ospedale.

Arrivavo dopo, a casa, durante i giorni degli effetti collaterali. Sopportati bene, tutto sommato. Fino all'ultimo Natale, anzi, ci eravamo, forse, tutti illusi che sarebbe restata ancora a lungo con noi.
Ancora a maggio pensavamo che davvero sarebbero arrivati "i giorni migliori" che ci aveva prospettato il chirurgo milanese che abbiamo incontrato a Terni. Sono sicura che ne era convinto anche lui (diversamente sarebbe stato uno sconsiderato, come minimo), ma purtroppo non ha avuto ragione.

Non voglio ricostruire minuto per minuto i giorni ancora troppo recenti del distacco, ma ho comunque bisogno di fissare qualche pensiero. Perdonatemi se doveste trovarli troppo tristi.
In questi giorni teatini ho rivisto tre mie ex compagne di liceo, una al giorno, e sono stati tutti incontri molto belli. Molto veri.

Da ognuna di loro ho imparato qualcosa, durante i lontani anni della crescita, ma sono stata davvero contenta di scoprire di poter apprendere dell'altro ancora oggi. Siamo uguali ad allora e insieme diverse. Il carattere non si cambia, ne sono sempre stata convinta, ma la vita ce lo modella. Può peggiorare, certo, ma può anche manifestarsi in tutte le sue potenzialità, rivelando le magnifiche donne che sono diventate.

Mi spiace di non poter condividere con Susi, Simona e Valentina anche l'esperienza della maternità: so che buona parte del loro tempo è occupato dal pensiero dei figli che crescono. Però sono, per fortuna, una zia, quindi conosco, almeno superficialmente, che cosa si prova nel dover uscire da sé per diventare strumento di qualcuno che dipende da te.

Da figlia, inoltre, so quanto sia fondamentale sentirsi amati. Le ammiro, ecco, perché le vedo in grado di svolgere il loro ruolo, rimanendo comunque così simili a come erano quando sedevamo dietro ai banchi della nostra aula lunga e stretta.

Susi mi ha mandato delle foto di quegli anni. Le ricordavo tutte, tranne una di gruppo, a casa di un nostro compagno. Solo qualche tempo fa rivederle mi avrebbe messo angoscia. E invece adesso le ho trovate così lievi.

Ho dimenticato molto di quegli anni, ma so al contempo che la donna di oggi viene da lì, principalmente. Certo, poi, c'è stata l'università fuori casa e tutti gli altri anni di peregrinare in giro per l'Italia, ma quanto sia simile alla ragazza che sono stata me lo ha restituito, in questi giorni, il dialogo con le compagne di liceo.

Chissà che cosa ne avrebbe detto mia madre. Penso che ne sarebbe stata contenta: dentro di sé deve aver almeno un po' patito per la mia insofferenza verso la nostra piccola città. Ma chissà se è davvero così: probabilmente l'ho delusa per non essere riuscita a staccarmene davvero del tutto. Chi può dirlo.

In ogni caso, sapete perché mi piace tanto la foto che vedete in alto? Perché quei peperoni così rossi mi parlano di amore. Dell'amore che passava anche dai piatti che ci preparava, dagli occhi fiammeggianti, dalle battute fulminanti e dalle risate ai danni di papà che tante volte ci siamo fatte insieme.

Il rosso è un colore che mi piace e so che piaceva molto anche a lei.
Un filo rosso mi lega ancora alle amiche di scuola che hanno condiviso con me questi giorni di lutto (è compresa nell'elenco anche l'assente ma sempre presente Annalisa) ed è consolante accorgersene.

Stamattina sono tornata con mio padre al cimitero e lei era lì, nella fotografia che abbiamo scelto per la tomba. Devono essere venuti a metterla forse ieri: lunedì non c'era e poi ci sono stati giorni di pioggia e vento.
Già da ieri, comunque, sentivo di doverci tornare: volevo togliere i fiori che immaginavo secchi o marciti.
Lì per lì non me n'ero accorta, attratta dal rosso del lumino che era stato spostato. Allora, mi sono detta, qualcuno deve essere venuto. E infatti.
Al posto del lumino c'era lei, nell'ovale quasi uguale a quello dei suoi genitori.

Da lontano si vedono solo i suoi occhi leggermente socchiusi per via del sole.
Occhi parlanti. Occhi danzanti.
Ciao, mamma. Tornerò presto a trovarti.
Grazie, amiche.

mercoledì 2 luglio 2014

Un vuoto dopo l'altro, e l'Iva se ne va


E' fatta: la partita Iva è chiusa. Quando sono uscita dallo studio della commercialista, mi è venuto istintivo dirigermi verso il Passetto, simbolo della città di Ancona che conosco veramente poco.
Paradossalmente, la zona che mi è più nota del capoluogo regionale marchigiano è proprio quella intorno al monumento presumo di origine neoclassica.

Non ho fatto granché un affare a venire da queste parti, ormai lo posso dire senza infingimenti.
Il correttore automatico mi segna l'ultima parola della precedente frase come errore. Non la cambio, tanto, a che cosa mi serve saper scrivere?

Mi stoppo immediatamente, non ho intenzione di lagnarmi. Facevo solo della stupida ironia vagamente partenopea. A dirla tutta, sto pensando come al solito a Totò e al suo meraviglioso lamento arabeggiante nel personaggio di Le Mokò "io non ci volevo venireeeee", quando scopre di trovarsi nella casbah in gravi, comicissime, pesti. Ogni volta che vedo quella scena mi escono le lacrime, dalle risate.

E insomma. Non avevo scelta. Non avendo guadagnato granché lo scorso anno (quest'anno non ne parliamo proprio), non potevo di certo correre il rischio di farmi massacrare dal Fisco.

Ai tempi della chiusura della Voce delle Marche mi si diceva continuamente "si chiude una porta, si apre un portone". Era novembre 2007: sette anni dopo mi pare che si sia aperta una bella voragine.
So che il problema non riguarda solo me. La mia commercialista non sembrava particolarmente sorpresa davanti alla mia decisione: devo essere stata l'ultima di una lunga serie.

Mi trovo a sperimentare nuovamente quell' "e dopo?" che ho descritto in un raccontino che (mi pare) potete trovare nella pagina in alto, sul mio passato di pseudo-scrittrice.
Solo che adesso ho quasi 43 anni e temo seriamente che il dopo sia la caritas che immaginava mia madre, equivocando la parola che le avevo detto al telefono, ossia "carisap", una banca che oggi non esiste più.

Mio cognato italo-tedesco oggi se ne va da suo padre nella terra che gli ha dato i natali, ma da quel che ho capito saranno vacanze molto diverse. Inconsciamente spero quasi che ci spiani la strada.
Come ho detto a qualcuno, questi sono strani giorni: mi sento più lucida e confusa che mai.

Ho in testa tutti gli errori commessi e tutte le strade che non voglio (o posso) più percorrere, ma non riesco ancora a decidermi da dove cominciare. Da dove ricominciare.
Torno a vivere a Chieti? Provo a mandare curricula dove capita in regioni più dinamiche?
Organizzo altre presentazioni del libro? Compro una casetta e l'affitto? E poi come campo, però?

Sapete come ho reagito all'affollamento della mia testa? Andando al mare.
Mi sono incremata ben bene, ho preso il mio libro in inglese per sentirmi meno in colpa e via, lettino, occhiali da sole, cappello di paglia, tutto il pomeriggio.

E adesso, via, verso mio padre, che ha bisogno di me. Almeno a qualcuno sono utile.
Passerà, lo so. Passa sempre. Passa tutto, del resto.

venerdì 27 giugno 2014

Foto e parole per raccontare come si può. E andare avanti


Ho pubblicato questa fotografia sulla mia pagina Facebook, riscuotendo un certo gradimento. Non faccio caso, in genere, ai "mi piace" raccolti, ma in questo caso ne sono stata contenta per il significato che ha per me l'immagine.
Il cactus che vedete è sul balcone dei miei genitori da sempre. Credo di averlo fotografato (anzi, sicuramente l'ho fatto) un sacco di volte, soprattutto nel periodo in cui ho cominciato a usare la reflex, l'ultimo anno di liceo. Non ho ancora avuto il coraggio di sfogliare le centinaia di fotografie che giacciono in alcune scatole di latta, di quelle belle rigide, dei biscotti e dei panettoni, ma sono certa che tra loro ce ne sarà almeno una che ritrae la stessa pianta quando era molto più piccola di come è adesso.

Un amico di origine chietina che ho conosciuto (per ora) solo sul social network (che, a proposito di questo, ogni tanto regala anche piacevoli incontri, nel mare scivoloso delle chiacchiere poco importanti nelle quali spesso indulgo anche io), mi ha giustamente detto che la fioritura ritrovata per puro caso nei giorni appena trascorsi nel luogo in cui sono cresciuta è un segnale positivo.
Non so se sia vero, ma comunque mi ha rincuorato leggerlo. Quindi lo è davvero, un segnale positivo. Non mi ricordo chi lo diceva, ma è proprio vero che una cosa esiste quando le si dà un nome. Le parole non rispecchiano mai completamente i nostri stati d'animo, attraversati da contrastanti e insondabili accavallamenti del cuore, ma a qualcosa pure servono.

Le parole fissano ciò che non si può mai fermare, come i minuti irripetibili che stanno scorrendo anche adesso che scrivo.
Chi fotografa per hobby come me, poi, sa anche quanto la fotografia faccia lo stesso in un tempo ancora più rapido. Anche la fotografia come le parole, però, non racconta mai del tutto ciò che siamo, ciò che pensiamo. Però ci tranquillizza pensare il contrario.

Mi attacco alle parole e alle immagini più che mai in questi giorni.
La fotografia che ho scattato a mia madre non più di tre mesi fa sullo stesso balcone tuttora pieno delle sue piante oggetto spesse volte dei miei scatti mi sembra che cambi aspetto ogni volta che guardo lo schermo del mio cellulare.
Sorride, mia mamma, ma a volte sembra malinconica, altre ironica, come è stata davvero.

Non abbiamo scelto quella foto per la tomba, perché ci sembrava inadatta: più passano i giorni e più non vedo quell'ombra di sofferenza che vi abbiamo colto all'inizio.
Sono in ogni caso contenta, orgogliosa direi, che ne abbiamo scelto un'altra sempre mia, scattata in giorni d'estate, così crudelmente lievi.
Lo stesso è successo per l'altra foto che regaleremo a chi le ha voluto bene. Lo scatto, stavolta, è invernale, ma l'occasione era altrettanto felice.

Sì, abbiamo fatto bene a tenere per noi quell'ultimo scatto, che poi ultimo non è. L'ho fotografata anche in ospedale, mentre dormiva. Non ho il coraggio di cancellarla, ma non posso nemmeno guardarla. Non avrei potuto fare il fotoreporter di guerra, di questo sono sicura.

Anche a lei piaceva molto fotografare. Nel dvd che le abbiamo regalato per i suoi settant'anni c'è un intero "capitolo" in cui l'ho ritratta nell'atto di scattare. Sul suo computer ci sono le foto che ha fatto lei, molte vivaci e dinamiche, come il suo temperamento.
Un giorno potrei raccoglierle e ricavarci un altro video. Sì, credo proprio che lo farò.

Di sicuro le sarebbe piaciuto guardarlo. E' stata sempre molto felice di partecipare alle attività di tutti noi, di incoraggiarci quando era il caso. Nei tempi andati della mia adolescenza e prima giovinezza, per dire, mi ha pure aiutato un sacco di volte a sgombrare la testa dalla confusione che, tuttavia, ahimè, non mi hai mai abbandonato. Ma questa è un'altra storia.
Non dimenticherò mai quella volta tra le tante, per dire, in cui mi ha sbattuto in faccia la verità che non volevo sentire, e cioè che il ragazzo che tanto mi piaceva non mi avrebbe mai considerato.

Come aveva ragione, ma come mi fece male sentirmelo dire allora.
E' stata, voglio dire, anche duramente chiara e nel tempo mi sono accorta di aver imparato a fare lo stesso. Almeno con le persone che amo di più. E lei di sicuro mi ha amato molto.

Grazie, mamma. Tutto quell'amore è ancora qui.
Passo dopo passo sto riprendendo in mano la mia vita. Spero di sentirti sempre vicina. Spero di non dimenticarmi mai di te.
Queste parole non raccontano del tutto la verità di ciò che provo, ma, appunto, fissano il presente. Un presente di lucido vuoto che non so dipingere meglio di così.
Mi manca la tecnica. L'acquisirò come posso. Un giorno dopo l'altro, come nella canzone di Luigi Tenco usata in una delle serie di Maigret di Gino Cervi. Sono un po' pesante, sì. E pazienza.
Vero, mamma?