martedì 26 marzo 2013

Mark Knopfler e il senso della vita

Il mio insegnante di inglese sudafricano (uno dei molti che potrei scegliere per le lezioni di conversazione online che ho acquistato) nella vita fa il videomaker. Dalla voce e dal modo in cui ride mi sembra molto più giovane di me e parecchio estroverso.
Non sono sicura (anzi: è certo che non ho capito) di aver capito tutto quel che mi ha detto di sé, ma forse sta per pubblicare un libro, addirittura il secondo. Tra un po' di lezioni, sperando di sciogliermi un po' di più, glielo richiedo perché francamente questa cosa m'incuriosisce assai.
In tutti i modi, ieri gli ho sottoposto una lista di canzoni di Mark Knopfler per farmi spiegare un po' di parole ed espressioni (cockney, adesso so che significa!).
Anche in questo caso sono più che sicura di non aver compreso tutto. Però trovo che sia molto stimolante discutere di poesia e di filosofia, se così si possono definire le quattro fregnacce che sono riuscita a imbastire per spiegargli quel che mi trasmetteva una canzone in particolare del grandissimo Mark.
Sto parlando di 5.15 AM, il pezzo di apertura dell'album Shangri-La, che mi ha sempre colpito per la musica orecchiabile e per l'oscurità delle parole.
Cercando i testi da mandare a Jason (si chiama così il simpatico sudafricano, che immagino di pelle bianca, ma chissà), mi sono accorta dell'esistenza in rete di forum che discutono del significato delle canzoni.
Su 5.15 Am, in particolare, qualcuno si è soffermato sulla contrapposizione tra bene e male, tra paradiso e inferno, in tutto l'album dell'ex leader dei Dire Straits e in generale nella vita.
A un certo punto, uno dei commentatori scrive proprio (traduco dall'inglese con maggiore scioltezza... e vai!): "C'è ironia nel titolo Shangri-La", che nella nostra lingua potrebbe suonare come "paese della cuccagna" o meglio ancora "eden". Noi tutti la cerchiamo, ma nella vita come in "Shangri-La, l'inferno è più frequente del paradiso". Il tizio (o la tizia, non saprei) aggiunge poi: Knopfler è cinico ma anche realista. Non offre soluzioni, ma solo ruvide osservazioni". Stando così le cose, "lo stile di vita dei surfisti" descritti nella canzone omonima al titolo dell'album è migliore, perché "più semplice e più basato sui sensi, aperto all'amore" nel senso più ampio del termine. "E tuttavia i vividi contrasti tra ciò che cerchiamo e ciò che riusciamo a trovare e naturalmente la musica rende l'album davvero grande".
Dal canto mio, non posso che sottoscrivere queste considerazioni, estendendole alla mia "way of life". Pur non potendomi definire una "surfista", sempre distesa e disponibile alla "dolce vita", espressione che compare esattamente così nella già citata 5.15 Am, mi sento alla costante ricerca del mio personale eden, fatto di equilibrio e serenità.
Non credo di essere l'unica: immagino che il grosso di noi impieghi il suo tempo alla ricerca della felicità chissà se perduta, come quella sperimentata da Adamo ed Eva nel paradiso originario. E tuttavia trovo davvero interessante constatare come sia molto più immediato esprimere questo senso di smarrimento nostalgico per un qualcosa che forse non abbiamo mai vissuto e insieme questo bisogno di sconfiggere i troppi momenti d'inferno che attraversano la nostra vita, per mezzo della musica e delle parole.
Certo: le seconde senza la prima non farebbero lo stesso effetto, ma trovo che Mark sia uno dei pochi maestri delle note dotato di analogo talento letterario.
Sono davvero felice di aver trovato un modo per apprezzare ancora di più le sfumature dei suoi lavori.
L'inferno è più frequente, è vero, ma quando arriva il paradiso, altro che se ce ne accorgiamo.
Per esempio, succede ascoltando Shangri-La.
Eccola per voi e per me, o per lo meno per quelli da noi che si sentono surfisti in potenza:




A tutti Buona Pasqua (rinascita...).

domenica 17 marzo 2013

Storie da biblioteca, W Macerata!

Fermo, piazza del Popolo, tappa della Tirreno-Adriatica 2013
Se avessi potuto usare Lightroomn (sono ancora senza pc, si spera per poco...), probabilmente avrei ritagliato un po' la foto per avvicinare il ciclista con le braccia alzate. In questo contesto, però, è giusto che quel gesto di vittoria resti solo un elemento del casino compositivo che vedete sopra, perché, in fondo nessun successo è mai definitivo.
Poco fa ho letto la mail della gentilissima Silvia Seracini, la coordinatrice di Storie da biblioteca, l'iniziativa promossa dalle sezione marchigiana dell'Associazione italiana biblioteche, della quale ho parlato anche nello scorso post. Silvia mi chiedeva di aggiungere qualche parola sulla premiazione voluta dal Comune di Macerata e dalla sua assessora ai Beni Culturali (concedetemi questo pizzico di femminismo istituzionale) Stefania Monteverde. Sono rimasta davvero molto colpita dalla semplicità e l'entusiasmo con i quali quest'ultima ha voluto onorare i vincitori partecipanti alla tappa maceratese, insigniti di sostanziosi fondi da spendere in libri.
E il bello è che l'ho scoperto solo dopo essere andata via dalla Mozzi Borgetti, insospettita dalla frase con la quale l'impiegata che ci ha accolti al nostro arrivo in una bellissima sala al pianoterra che non abbiamo potuto visitare il giorno del gioco-concorso, mi ha salutato: "Passi in libreria a scegliere qualche libro".
La mia amica maceratese Simona può testimoniarlo: sono rimasta letteralmente a bocca aperta quando ho aperto uno dei pacchetti e ho visto la scritta "buono per..." . Ma la mia sorpresa è diventata ancora maggiore quando ho letto il valore dell'altro buono...
Mi sono sentita fortunatissima, come se avessi vinto un milione di dollari. Come se mi avessero dato il Pulitzer. Ed è stato talmente inaspettato che adesso... non so che cosa regalarmi! Certo, qualcosa ho già preso (un regalino per mio marito, per esempio...), ma i doni vanno centellinati come un buon vino, mica trattati male come gli oggetti che compro da sola e che di solito durano veramente poco.
Quindi sceglierò con calma, forse anche per far durare ancora qualche giorno, settimana, la sensazione così piacevole assaporata al primo sorso.
E poi Macerata mi piace molto e sarà davvero una gioia tornarci più volte per ritirare altri pezzetti del mio premio!
Dedico queste parole a tutte le persone che mi vogliono bene, consapevole che il loro sostegno è il dono più prezioso che ho. Grazie ancora agli organizzatori di Storie da biblioteca e al Comune di Macerata per la dignità che ci (mi) avete restituito. Non lo dimenticherò.

giovedì 7 marzo 2013

Piccole soddisfazioni da secchioncella tardiva


Una volta tanto, posso sentirmi contenta. Anzi, super contenta.
Anche se ho un vocabolario limitatissimo e mi prende l'ansia ogni volta che devo parlare in inglese, sono riuscita a superare il primo livello intermedio senza neanche doverlo finire interamente!
Vi assicuro: dà grande soddisfazione accorgersi di fare progressi nello studio, visto che erano secoli che non mi impegnavo così a fondo in una materia.
A dirla tutta, però, dovevo immaginarlo. Due anni fa, dal nulla, mi sono messa a studiare Statistica per un concorso pubblico, e benché non sia servito in termini pratici, già all'epoca mi ero resa conto che studiare mi piace ancora e sì, mi riesce. Il che non era affatto scontato, nonostante il mio buon curriculum scolastico.
Ma le soddisfazioni da secchioncella tardiva della giornata odierna non sono finite.
Poco prima della lezione con un simpatico videomaker sudafricano (pensate un po' come lavora la mia scuola d'inglese a distanza: raccatta insegnanti madrelingua da tutto il globo anglofonizzato), ho ricevuto una telefonata dalla biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata, di cui ho parlato diversi mesi fa, in occasione della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un'appassionante iniziativa ideata dalla sezione Marche dell'Associazione italiana delle biblioteche per diffondere tra i cittadini la conoscenza delle proprie sedi più belle. In particolare, si trattava di partecipare a un concorso in una o più biblioteche che avevano dato la loro adesione, cimentandosi nella scrittura di un racconto riguardante la sala ospitante e/o immortandola fotograficamente.
Ebbene, sono risultata la vincitrice per la sezione scrittura nella meravigliosa biblioteca maceratese! Non contenta, ho ottenuto anche il secondo premio ex aequo per la fotografia!
Lo dico apertamente: mi ha fatto molto piacere e me ne ricorderò a lungo. Pur essendo, infatti, una piccolissima vittoria, è arrivata del tutto inaspettata in un momento abbastanza oscuro della mia vita professionale.
E poi, lo riconosco, mi sono talmente divertita a scrivere il racconto che potrete trovare nell'ebook pubblicato dagli organizzatori qui linkato, e ho messo anche così tanta enfasi nell'usare decentemente il cavalletto, che un piccolo riconoscimento, un bravo + come quello che la maestra scriveva nei miei quaderni, male non ci stava.
La vita è fatta di inezie, è proprio vero.
Complimenti a me, quindi.
Cin cin!

mercoledì 6 marzo 2013

I giorni dell'anormalità normale

Il vento scuote le piante fuori dalla mia finestra, lieto megafono del cinguettìo di qualche passerotto coraggioso, impaziente come me per questa primavera che non ancora arriva. L'immagine fiaccamente poetica fa da altrettanto debole cappello alle parole che sto per scrivere.
Oggi vorrei parlare di horror vacui e dell'allenamento a questo punto non più solo personale a vivere come color che sono sospesi. Perché, se è vero che il grosso di noi crede di non saper gestire il vuoto, riflettiamo un attimo sul periodo storico che stiamo vivendo: senza governo, senza Papa, senza futuro. Almeno all'apparenza. Il futuro, infatti, c'è per forza, comunque vada a finire.
Sapete anzi che cosa penso? Molti di noi (io di sicuro) ci stiamo bene in questo stato di sospensione. Dire bene, forse, è esagerato, però la strizza per quel che deve venire ci rende più sopportabile anche l'incertezza. E l'horror vacui di cui sopra passa decisamente in secondo piano.
Faccio un esempio più personale.
L'altro giorno ero in cucina con gli zii e mia madre. Sulla tavola due diversi numeri della Settimana enigmistica. Non so come, ma ci siamo messi a risolvere un cruciverba collettivamente, passandocelo democraticamente alla prima o seconda definizione insolubile. Nello specifico, al gioco ho partecipato io con gli zii, mentre mia madre, con gli occhi bassi, commentava ironica: "Ma guarda un po' tu: li avevo presi per me...". Abbiamo riso tutti.
Domenica mattina, poi, ero in auto con mio padre e casualmente ci siamo messi a parlare dei ricordi dei primi anni di vita. Io dicevo che è difficile avere memoria di noi stessi dai due ai cinque-sei anni, ma mio padre non era del tutto d'accordo. Lui, per esempio, non aveva scordato alcune cose, anche se, certamente, a ripensarci oggi erano come sogni, ma di quelli molto vivi che ci portiamo dietro tutta la vita.
E me ne ha raccontato uno, con quella leggera pausa che precede l'atto del narrare a voce alta, che tanto piace da bambini. In quei secondi ho avvertito una specie di sottilissima nostalgia, consapevole di stare vivendo un momento unico, del quale avrei voluto conservare tutto.
E invece. Il racconto mi è giunto a metà, troppo presa com'ero dall'ascolto delle mie emozioni.
C'era la guerra e i bombardamenti. Mio padre era all'epoca l'unico figlio cresciuto in solitudine da mia nonna, nei lunghi anni in cui il marito, mio nonno, rimase lontano, come soldato e poi prigioniero di guerra.
Non si poteva restare in casa, troppo pericoloso. Così mio padre, chissà se impegnato in qualche gioco infantile, venne trascinato via dalla mamma per un braccio, perché potessero rifugiarsi il più velocemente possibile in una delle cavità aperte su un muro di una strada poco distante. E' riuscito proprio a farmi vedere il braccino tirato dalla mamma e tutta la sua ansia, riflessa in quella di lei. Altre volte mi aveva raccontato di quando non aveva le scarpe e dei pantaloncini corti con cui erano soliti girare anche d'inverno. Quel periodo, però, è testimoniato anche dalle foto della famiglia di mia madre, quindi è un ricordo mediato dalle immagini.
Stavolta, invece, la sospensione prodotta era più intima, più segreta.
Certo, adesso che ne ho parlato sul blog, non lo è più, ma sentivo il bisogno di fissarlo qui, a testimonianza di questi inediti giorni di "anormalità normale", per citare un'espressione usata spesso da mia mamma nell'ultimo periodo.
Sento di star vivendo un momento della mia vita molto speciale, di cui un giorno, forse, potrei avere nostalgia.
D'altra parte, la mia natura tende naturalmente alla saudade, ma cerco di tenerla sotto controllo, per paura di risultare pesante.
Non si tratta, tuttavia, tanto del rimpianto del passato (a volte c'è anche quello) quanto della malinconia di non poter trattenere nulla per sempre, neanche certe tristezze obiettivamente dannose.
Tornando al presente e al destino dell'Italia (e della Chiesa!), sarebbe bello se un domani potessimo ripensare a questi giorni con un pizzico di saudade. Come eravamo incasinati, ci pensate? Potremmo dire così ai nostri nipoti.
Già solo sognare di poterlo raccontare è una prospettiva ottimistica, vero?
Sì che lo è. E del resto, tenderò anche alla saudade, ma al contempo sono un'inguaribile illusa.
Vi lascio con una barzelletta stupida stupida, di quelle che piacciono tanto a mio nipote settenne, che me le scrive su Skype tutto gongolante.
Sapete qual è il colmo per la Befana? Non saper giocare a scopa.
Magari, in questi giorni, anche i cardinali se ne racconteranno probabilmente anche di più scollacciate, e forse pure i parlamentari grillini, mettendo alla porta l'horror vacui e la storia che incombe.

martedì 26 febbraio 2013

Speranza per i giovani, nonostante Grillo


Hamaguchi è il giovanissimo fattorino di un'azienda tessile giapponese. Vive in provincia con la famiglia, è povero, ma dalla sua possiede, oltre a un talento fortissimo per il disegno, anche la buona sorte.
Nel giro di poco tempo, infatti, riesce a trasferirsi a Tokyo e a sfondare in una di quelle carriere che un genitore non consiglierebbe mai al proprio figlio. A condurlo sulla strada che ha sempre sognato, una serie di coincidenze e soprattutto l'amore per una ragazza, malata e lontana.
Uscito in Giappone nel 2008 e stampato in italiano da Lyzard due anni dopo, Uno zoo di inverno, il commovente fumetto (detesto la dicitura graphic novel, anche se condivido con gli estimatori di questo genere la volontà di elevarli al rango che si meritano. Quando se lo meritano, naturalmente) di Jiro Taniguchi racconta in forma romanzata l'esordio di uno dei più importanti autori di storie disegnate del mondo.
Oltre all'evidente qualità del segno di questo maestro oggi sessantaseienne, quel che più mi ha colpito del libro è la naturalezza con cui Taniguchi ha saputo parlare di giovinezza, sogno, amore e sì, passione per il proprio lavoro.
In un mondo ideale, tutti dovremmo avere la stessa fortuna di Hamaguchi-Jiro, ma so benissimo che non è così. Ritengo però che sia importante attaccarsi a esempi del genere, romanzati o meno, non tanto per noi adulti, imprigionati in un momento storico davvero incerto, quanto per le giovani generazioni con le quali ci dovesse capitare di interagire.
Scrivo queste parole all'indomani del risultato elettorale, consapevole della spallata che gli italiani hanno voluto dare alla classe politica nazionale, in particolare al centro-sinistra che non è stato, per l'appunto, capace di parlare di speranza nel modo giusto. Qual è quest'ultimo, vi chiederete.
Per quanto mi riguarda, ci sarebbe stato bisogno di instillare fiducia con parole insieme forti e delicate, realistiche e infuocate, tenendo bene a mente il contesto socio-economico internazionale, spread compreso, ebbene sì.
Purtroppo, non credo proprio che i grillini incarnino i miei desiderata e l'angoscia che ho provato prima di andare a segnare quelle inutili crocette era piena di fondamento.
Ma, al di là del mio personale fallimento, di cui, obiettivamente, non frega nulla a nessuno, temo proprio che Grillo & co non siano in grado di alimentare il sogno di nessuno dei loro giovani elettori.
Ieri sera ho sentito la giovane Marta Grande, inebetita, letteralmente, per una vittoria uguale forse solo al suo cognome. E' questo il ricambio generazionale che aspettavamo? Con tutto il rispetto e la solidarietà per le comprensibili incertezze da novellini, ho avuto un'impressione totalmente opposta a quella che mi ha suscitato la storia di Hamaguchi-Taniguchi.
L'autore giapponese (e il suo personaggio principale) non dorme per notti intere pur di finire i disegni che gli sono stati richiesti; quando decide di lavorare alla sua prima vera storia, se ne fa talmente assorbire da tralasciare tutto il resto. Mi verrebbe perciò da chiedere a Marta e agli altri giovani finalmente entrati nelle stanze dei bottoni: voi che cosa vi aspettate dal vostro inedito e delicato ruolo istituzionale? Era proprio quello che sognavate? Volevate così tanto accedere agli scranni del potere da aver tralasciato tutto il resto? O non sarà che non avevate altre prospettive viste le condizioni più che agonizzanti del mercato del lavoro nazionale?
Non ho la presunzione di rispondere: non conosco a uno a uno i neo-parlamentari grillini e di sicuro tra loro ce ne sarà più di qualcuno con la politica (alla greca) nel dna.
Mi resta tuttavia un po' di amarezza per tutti gli ex giovani come me che forse non hanno saputo (per motivi personali) credere fino in fondo nei propri talenti, ma ai quali è stata comunque negata una seconda chance, essendo invecchiati di pari passo con la distruzione progressiva della speranza di cambiamento.
Adesso tocca a voi farci vedere di che cosa siete capaci.
A noi continuare a leggere, scrivere di passioni vere, di sogni autentici, di destini migliori di quello che, probabilmente, è toccato a noi in sorte.
In bocca al lupo, Italia.

giovedì 21 febbraio 2013

Montaigne e la soggettività: una lezione imperdibile. Di vita

Dall'introduzione ai Saggi di Michel Eyquem Montaigne

Scrivere un diario, scriverlo male, significa normalmente scrivere le cose più importanti, non i dettagli.
Lo dice una delle partecipanti alla conversazione su Montaigne (adesso che lo scrivo mi rendo conto di sapere di chi si tratta... che emozione) che mi ha mandato il mio carissimo amico Paolo Ferrario sotto forma di link su Facebook.
Le stupidate si scrivono identiche anche oggi, qui su questi spazi virtuali, e forse ancora sui diari scolastici.
In ogni caso, l'attenzione ai dettagli richiede tempo, impegno e sì, coraggio.
Consiglio caldamente ai miei pochi lettori di ascoltare la lezione-conversazione su questa grande figura vissuta nel '500, di una modernità sconvolgente.
Mi piace moltissimo l'alternanza tra "l'alto e il basso" (vi sfido a trovare qual è l'uno e l'altro) e lo spirito di condivisione che caratterizza il mio amico (collerico, ma molto molto intersoggettivo) Paolo.
Mi stanno facendo tornare in mente i miei diari cartacei, per i quali provo una qualche nostalgia, semplicemente perché, come Montaigne anch'io m'interrogo su quello che so. E che soprattutto NON so. Tutti i giorni. E se sono passata al diario online è perché la ricerca non è finita (tutt'altro) e spararlo in questo spazio cibernetico mi aiuta a non dimenticarmelo mai.
Grazie della lezione e delle belle voci che la animano.
Buon ascolto a voi.

venerdì 15 febbraio 2013

Nikka Costa e il senso della vita



Di recente ho fatto una permanente leggera per contrastare l'effetto capello-spiaccicato che inevitabilmente si ripropone ogni volta che la poco folta chioma si allunga un po'.
Il risultato? Stamattina, guardandomi allo specchio, tolte - naturalmente - le rughe e l'abbigliamento da casalinga di Voghera (niente a che vedere con le desperate housewives Usa, tanto per capirci), sembravo Nikka Costa. E non la Nikka di oggi, classe 1972, bensì quella che ho conosciuto ai tempi del suo album con il papà Don Costa che, a pensarci oggi, deve essere stato un bel  mostro.
Ieri pomeriggio ho visto un pezzetto del concerto che la povera bambina di un tempo fece con il padre all'arena di Verona. Aveva lo sguardo terrorizzato, da bambolesca creatura costretta a un gioco troppo più grande di lei. Non so nulla di come Nikka sia cresciuta né se poi sia riuscita a cavarsela "on her own". Però lo sguardo triste che esibiva al programma di Carlo Conti, quello in cui ripescano i relitti del passato con una crudeltà e un cinismo per me insopportabile, non mi pareva finto.
Sia come sia, la sua (si fa per dire) sosia chietina è cresciuta anche (non solo, per fortuna) con le canzoni di Nikka. In particolare, ho cominciato ad apprezzarle particolarmente quando sono stata anche in grado di comprenderne i testi che, ovviamente, avevo già imparato a memoria anni prima. E sì, perché essendo una ultraquarantenne, basta farsi un po' di conti: ho cominciato a studiare Inglese in quarta ginnasio, quindi diversi anni dopo aver ascoltato per la prima volta l'LP di Nikka, di cui ricordavo alla perfezione tutte le foto e le espressioni del volto. A pensarci bene, oltre alle sue canzoni, sapevo perfettamente anche Eye of the tiger dei Survivor. E vabbè.
Veniamo al punto.
Da poco (come ho già scritto) ho ripreso a studiare Inglese con molto entusiasmo: giusto ieri, influenzata inconsciamente dal clima sanremese, mi sono messa a pensare alle canzoni che conosco a memoria per esercitarmi sulla pronuncia. Ed è così che mi si è riproposta la più famosa interpretazione di Nikka, cioè On my own. Il testo riflette tutta la retorica a stelle e strisce del sapersela cavare da soli, del self-made man (woman) e tutto il resto, però la musica stra-pop e la voce infantile della ex bambina americana mi danno ancora adesso i brividi. E mi fanno pensare che sì, l'unico modo per scuotersi da dolori e altre ambasce è uscire "da qui" e occuparsi di se stessi in piena autonomia.
Detto in altri termini, la canzone di Nikka ha influenzato la mia personalità molto più di quanto voglia riconoscere persino adesso che ne sto parlando.
C'è però un secondo brano che sento - ancora più fortemente - mio.
Si tratta di It's your dream, che avevo trascritto sul mio diario, azzardandone anche una traduzione personale.
Adesso non sto qui a riproporvela, ma voglio sottolinearne (forse per archiviarla per sempre nel mio cuore) la frase finale: "Cause you're never gonna pass this way again. No, you're never gonna pass this way again".
Non posso farci nulla: l'ho risentita e... indovinate un po'? Ho pianto. E certo. Come potevo esimermi?
A riascoltarla tutta, ne capisco oggi più che mai le ragioni.
Anche in questo caso, il testo incarna alla perfezione la retorica americana del farsi-tutti-da soli. Ma la canzone dice qualcosa in più, e cioè: se hai un sogno, cerca di realizzarlo. Non lasciare che le paure ti blocchino e anche se cadi rialzati e vai avanti. Perché se non lo fai adesso che ne hai l'occasione, non potrai farlo mai più. In breve, il buon vecchio adagio "ogni lasciata è persa", nato sul più dotto stra-citato, "carpe diem".
A quattordici-quindici anni la pensavo così, esattamente come oggi. Mi domando, certo, se l'essere già così tanto consapevole dell'esistenza dei fallimenti e della sofferenza non mi abbiano condizionato anche in negativo. Chissà che non abbia avuto troppa paura di riuscire in qualcosa al punto da non avvicinarmi mai troppo al "successo". Non so rispondere, perché forse una risposta univoca non c'è.
In ogni caso, nel complesso non mi dispiaccio (oh, Nikka Costa era una bambina molto carina....), ma mi stupisce sempre quando realizzo di non essere per nulla cambiata negli anni. Sto parlando del carattere, delle illusioni e dei sogni (per l'appunto), sempre quelli nonostante il tempo volato via davvero in un soffio.
La mia nonna materna me lo diceva spesso, guardando il paesaggio montano oltre le finestre della sua grande casa: "Dopo una certa età gli anni cominciano a scorrere più in fretta". Non riusciva a credere di aver superato i settant'anni (ai tempi dormivo spesso da lei, spedita da mia mamma che non voleva che restasse sola la notte). E, considerato il suo animo poetico e sognatore, oggi lo capisco più che mai.
Se ho scelto di presentarmi con la fotografia di me piccolina e se di recente ho ritirato fuori quel bellissimo primo piano di una me treenne al mare, è perché, evidentemente, anch'io non vivo molto nel presente. O forse no. Forse ho solo bisogno di fare il punto, di  ritrovarmi, di rivedermi per poter andare avanti lungo quella via che non potrò percorrere mai più una seconda volta.
Sì, penso sia questa la ragione del mio continuo, urgente, bisogno di amarcord.
In tutti i casi, dedico questa canzone a tutte le cercatrici di sogno, le Nikka Costa della mia generazione, sperando che ne abbiate realizzato almeno qualcuno. Buona vita a tutte.