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lunedì 19 ottobre 2015
#concorsonerai, fuori dagli eletti. Con onore
Vi assicuro, non sono depressa. Incazzata, forse, un pochino sì. Di tutto mi rode di più questa cosa: non essere riuscita a entrare nel gruppo dei 100 giornalisti professionisti che varcheranno i tornelli di Saxa Rubra (e di svariate sedi regionali Rai a partire da Aosta, Cosenza, Campobasso e qualche altra che non ricordo) mi costringerà a fare come sempre. E cioè, mai una cena fuori, pochi film al cinema, pochissimi acquisti (alla crema antirughe, però, non posso rinunciare e nemmeno alla palestra: il crollo è dietro l'angolo e le delusioni di certo non aiutano).
Minchia che vita sfigata. Fortuna che abito sul mare e che, tutto sommato, intorno a me non vedo girare molta gente con i soldi, ma davvero, quello stipendiuccio mensile, pure solo per qualche mese ogni tot, non mi avrebbe fatto schifo.
Invece ciccia, si andrà avanti così. Ho da scoprire ancora molto sulla cura delle piante da balcone (da interno no: sennò la grigia ce le fa fuori tutte. Mortacci suoi).
Ma torniamo un attimo indietro al giorno in cui avevo saputo di aver superato la prima fase del concorsone Rai, era inizio luglio, la pelle non ancora rinsecchita dal sole.
Che botta in positivo per l'autostima, accidenti. E che senso di rivalsa sapere di essere andata lì a farmi largo con il mio metro e cinquantadue tra 2.800 persone, con sole due settimane di preparazione rappezzata alla bell' e meglio, dopo mesi in cui leggiucchiavo pochissimo i giornali, assai ben più attratta com'ero (e come tornerò ben presto ad essere) da libri in lingua inglese (mo' ci metto pure il tedesco, tiè), corsette sul mare e svariati impegni familiari (trasloco compreso).
Da quel momento in poi, però, tutto è cambiato. Ho, per l'appunto, realizzato che mi si dava l'occasione, probabilmente irripetibile, di tornare a fare il lavoro che mi ero scelta quindici anni prima, da una posizione un po' meno marginale di quella che ho avuto negli ultimi dieci, mese/anno più o meno.
Risistemandomi il curriculum, oggetto di valutazione (ho appena visto che ha preso un bel 3 su 5 punti) tra gli altri elementi che hanno contribuito a formare la graduatoria finale, ho riletto la mia vita professionale sotto una luce diversa.
Ho fatto un sacco di cose, accidenti. Anche quelle apparentemente meno importanti, come la partecipazione al laboratorio dei pazienti psichiatrici della Comunità di San Girolamo di Fermo, in qualità di volontaria (o aspirante ospite? Scherzo, of course) è stata gratificante e, direi proprio, formativa.
Ho strappato il posto 210 su 400 in graduatoria (accanto ad altri colleghi - ancora per poco - tra cui un paio di donne simpatiche incontrate il giorno del concorso e su facebook), il che, considerati i punteggi che ho riportato nelle singole prove, mi consola parecchio. Studiare a qualcosa è servito, per la precisione a ottenere sette punti su sette quanto a titoli. Però, per me, la lode doveva dare un punto in più (e che diamine), tanto, comunque, non mi avrebbe permesso di entrare in Rai.
E insomma, più scrivo più mi sento sollevata.
Prendere 21 punti su 25 nella prova di radio, per dire, non è poco, considerato che le mie esperienze in materia risalivano al mitizzato stage al gr Rai all'inizio del mio viaggio nel giornalismo (e a poco altro qualche anno dopo, ora che ci penso, con un mio carissimo amico dell'Ifg di Milano, uno che ha saggiamente lasciato perdere il giornalismo diversi anni fa, quando la crisi non era ancora deflagrata).
Mi rode un cicinìn non avere preso manco un punto in tedesco, ma del resto non lo praticavo da tempo immemorabile e solo adesso (nur jetzt!!) comincio a ri-raccapezzarci qualcosa, dopo un'estate di studio matto e disperato (wie schwer ist Deutsch!!).
In inglese me la sono cavata benino (meno di come pensavo, francamente: 6,5/10), ma, ripeto, pure lì, sono sicura che se avessi preso il massimo, sarei stata fuori lo stesso.
A questo punto, spero (francamente, ardentemente) solo che i 100 ammessi siano davvero i migliori.
Lo spero con tutto il cuore perché ho trovato davvero squallido il polemicone sollevato da alcuni di quelli che non hanno superato la prima fase. E poi perché, davvero, di gente brava, motivata e dotata di grinta e di pazienza ce n'è davvero bisogno, in Rai come in altri posti.
Posti, sia chiaro, nei quali non ci si sieda e basta, bensì dotati di sedie con molle molto elastiche in maniera da essere catapultati rapidi nel mondo, per raccontarlo nei modi più rigorosi e originali possibili.
Se i cento entrati alla prima botta (smentisco tutti quelli che dicono che tanto la Rai non li chiamerà mai: non è così, rassegnatevi. LORO lavoreranno presto all'ombra dei cavalli della tv di Stato) saranno in grado di stupire pure me, che me ne starò dall'altra parte dello schermo come al solito, beh, allora vorrà dire che sono dove devono essere.
Da parte mia, continuerò ad ascoltare soprattutto la radio, in attesa di qualche voce nuova che sappia parlarmi con il giusto accento (detesto i conduttori troppo aggressivi, ma pure quelli dalle spiccate cadenze regionali). E se poi nasceranno le newsroom (pare che i tg rai vadano verso un paio al massimo di mega-redazioni), se un sacco di gente con stipendi che personalmente non ho mai sperato di avere, nel frattempo lascerà spazio a qualcun altro oltre il limite dei primi 100 che hanno passato con me l'estate a sperare (preparandosi per bene) in un cambiamento di quelli che davvero ti ribaltano la vita, beh, meglio così.
Dubito, in ogni caso, che lo squarcio nel filo spinato degli eletti si allarghi fino alla zona della classifica nella quale mi sono fermata io: o, se lo faranno, potrebbe, magari succedere tra due-tre anni, ossia il tempo massimo di durata della graduatoria dei 400 aspiranti e non (più).
Io, comunque, non posso permettermi di aspettare tempi così lunghi: nessuno può farlo (potremmo morire per colpa delle emissioni truccate della VW domani mattina), ma tanto meno una che non vede un euro di entrata da mo'.
Quindi adesso che succede?
Non ne ho idea. Come ebbe a dire l'ex sindaco di Fermo (non dico quale) a qualcuno che gli chiedeva forse di piazzargli un nipote: "Checcosa farò".
Per forza.
Grazie, amici, e scusatemi per la lunga assenza.
Tornerò (credo) a essere più assidua.
Scrivere fa parte di me, non c'è niente che possa cambiare questo dato di fatto.
Bis bald (a presto).
sabato 4 luglio 2015
#concorsonerai, presagi di una guerra (ahimè) necessaria
Qualche piccolo segnale premonitore di come dovesse andare a finire l'anteprima di questa storia, lo ammetto, mi era arrivato.
Del nostro amico senegalese Ibrahim detto Rai vi ho già parlato un po' di post fa.
Bene: il suddetto mi ha telefonato il giorno prima della mia gita a Bastia Umbra, nella calura crescente che non ci ha ancora mollati, verso la fiera di Perugia, dove si è celebrato un rito collettivo di biblico sapore.
Sono arrivata al padiglione 7 alle 10 e un quarto. Fresca, relativamente, e determinata a non parlare con nessuno.
Mi sono nascosta dietro agli occhiali da sole di mia mamma (uno dei due modelli che uso abitualmente) e, per i miei parametri, calma, ma anche vagamente incazzata, ho aspettato che facessero entrare anche noi del "varco 10".
Percepivo intorno a me una certa tensione, ma anche una vaga rassegnazione, soprattutto in quelli più vecchi. Come me. O forse ero solo io che proiettavo sugli altri il mio stato d'animo.
"Nella foto ero più giovane", ho detto alla bella moretta che mi ha preso tesserino e carta d'identità squadrandomi bene in viso per essere certa che fossi la stessa persona ritratta nella foto. "Me lo dicono tutti", mi ha risposto dolcemente, facendomi sentire ancora più vecchia e inadeguata.
Ho preso posto in fondo all'hangar di Casablanca - mi domandavo dove avessero spostato gli aeroplani con le eliche (non è vero: me lo sono appena inventato) e mi sono messa in attesa che ci dicessero qualcosa, provando, in verità, un certo imbarazzo intestinale. "Vado o non vado al bagno?", mi domandavo, sempre più incupita con me stessa per il corpo che in quest'ultimo periodo sta facendo un po' troppe bizze.
Alla fine ho resistito usando la mia solita strategia anti-stress: ho scambiato qualche parola con la ragazza alla mia destra, faccia concentrata, aspetto gradevole. "Però con la V fanno presto ad arrivare a noi", dice commentando l'estrazione della prima lettera del cognome dalla quale partiranno per la seconda (e terza) prova.
Chissà se anche lei aveva il presentimento di potercela fare. Chissà se ce l'ha effettivamente fatta. Ignoro come si chiami. Dopo la prova non ci siamo neanche salutate. Meglio così. Troppa confidenza crea solo mala creanza. I detti di una volta hanno il loro perché, date retta a zia Alessandra.
Uscita, mi sono allontanata il più rapidamente possibile dalla fiera, il Bipede tra i coniugi, compagni etc etc in impaziente attesa. Si schiattava di caldo e lui non sopportava nessuno (in particolare i candidati che avevano già finito la prova), dev'essere stato uno sforzo non indifferente farmi da body-guard in questa circostanza. Io, in tutta risposta, mi sono mangiata senza battere ciglio la metà del suo panino direttamente in macchina, manco il tempo di raggiungere un luogo più ameno.
Ma torniamo per un attimo a Rai: mio nipote piccolo, almeno fino all'anno scorso, tutte le volte che lo vedeva gli domandava: "Ma sei Raiuno, Raidue o Raitre?".
Me ne sono ricordata quand'eravamo già a casa, risvegliandomi dal riposino della nonna.
No, non può essere, mi sono detta, riscuotendomi.
E invece è.
Per cui adesso, alla vigilia delle 44 primavere, mi aspetta un'estate di matto studio, con l'assoluta consapevolezza che sarà una vera guerra.
Qualche giorno prima della prova, mi sono iscritta al forum dei candidati su Facebook. L'ho fatto pensando che potessi ricavarne qualche indicazione utile sia su cosa studiare sia sui problemi logistici eventualmente riscontrati da chi era già lì.
Di informazioni ne ho ricavate parecchie, devo ammetterlo, ma su aspetti che non mi sarei mai immaginata.
Per esempio, su quanti siano i professionisti più o meno a spasso, ma questo era, in fondo, scontato.
Tra i molti rosicamenti di chi non ce l'ha fatta, ho notato anche quella tendenza tipicamente italiana al complottismo.
Sinceramente: perché sprecare le proprie energie a interrogarsi su come siano stati redatti i quizzzzz, sui cognomi illustri di quelli che sono passati e sul fatto che tra quelli che ce l'hanno fatta diversi non hanno mai fatto tv?
Una persona ha giustamente fatto notare quel che è: i 400 selezionati si prenderanno a coltellate solo per essere nel gruppo dei 100 che andranno a formare una graduatoria dalla quale si potrà (forse) pescare entro i prossimi tre anni per contratti a tempo determinato.
Detto in altri termini: io potrei (sempre che lo passi) ritrovarmi ad avere il mio primo contrattino in Rai a - minimo - 47 anni.
E nel frattempo che faccio? Forse la colf, che manco mi riesce, la stiratrice (mmmh), la daddy-sitter (quello lo faccio abbastanza bene, pare).
E infatti tra gli amici che hanno declinato il gentile invito al party umbro, ce n'è più d'uno che ha ridato un'occhiata alle proprie priorità, dicendosi: ma figuriamoci, non c'è neanche da bere.
Scherzosamente, una delle mie ex compagne di casa dei tempi (poetici, per forza di cose, visto che sono lontanissimi) della scuola di giornalismo, mi ha detto che vuole "il primo stipendio" come pizzino. Mi ha fatto davvero ridere. Speriamo (nel caso) di arrivarci per lo meno prima della menopausa.
A beneficio di chi non conosce tutta la mia storia, comunque, io in Rai ci sono stata, ed è anche per questo che mi fa una certa impressione pensare di rientrarci fosse anche solo per espletare fino in fondo il mio ruolo di candidata.
I miei primi stage sono stati a RadioRai. Poi ne ho fatto uno nel programma di Enzo Biagi, al quale è seguito un contrattino.
In seguito ho preso altre strade, ma in questi giorni mi sono ricordata di come ero e di come non sono più.
Il mio cognato tedesco ha fatto un'osservazione giusta: forse, ha detto, neanche la Rai è più quella di quindici anni fa. E già. Bisognerà adesso capire in che modo siamo cambiati lei e io e se possiamo eventualmente andare d'accordo.
Finisco con un altro segno premonitore, stavolta auto-indotto.
Lungo la strada per Bastia, non so come, mi è venuto in mente Francesco Guccini.
Mi sono ricordata in particolare della canzone che si chiama Autogrill (ecco perché: ne abbiamo agognato uno per parecchi chilometri per necessità fisiologiche. Bisognerà che avvisi gli addetti ai candidati di mettermi a disposizione un pitale, mentre svolgo le mie prove. Sennò pannolone e stop).
Mio marito detesta tutta la musica italiana, per cui, snobbandomi, ha subito commentato: "Che palle".
Io gli ho ribattuto che uno dei brani inediti di Tracker del nostro amato Mark Knopfler (per la precisione My heart has never changed) parla più o meno di quel che dice il Guccio nel suo. Certo, musicalmente siamo piuttosto agli antipodi, ma io, sotto sotto, al Francescone nazionale sono affezionata per ragioni sentimentali.
Bene.
Una delle domande del quizzone era: Chi ha composto l'album live "Tra la via Emilia e il West". Guccini, ovvio.
Un sacco di candidati l'ha cannata. Io no.
Non vi dico (ma sì: ve lo dico) che errori del C. ho fatto io.
Le Déjeuner sur l'herbe? Ovviamente è di... no, mi vergogno troppo se vi rivelo quale risposta ho segnato. Mamma mia. Mamma Rai mia.
Però, a parte qualche svarione davvero imbarazzante, mi sono riconsolata: farmi studiare, alla fine, a qualcosa è servito.
Adesso sono, come dicono gli spiritosi, volatili per diabetici.
Spero solo che mi passi questa dannata febbriciattola psicomatica.
L'avevo detto io che sarebbe stato meglio se non mi convocavano.
Il buon Rob Brezny, quello degli oroscopi di Internazionale, sostiene che devo, una volta buona, agire non da cancerina. E' una parola. Alla preselezione - ebbene sì - ce l'ho fatta, ma mo'?
Mo' vediamo.
Intanto mi godo, per così dire, ancora per qualche ora il meritato riposo (indotto dalla febbre, ahimè).
E poi
à la guerre comme à la guerre.
Chi l'avrà detto?
Meglio che controlli, va.
Per il prossimo quizzone, stavolta da Gerry.
giovedì 2 luglio 2015
Mondo operaio, la vera cronaca del trasloco più lungo della storia
E niente, da quando vi ho promesso che mi sarei di nuovo fatta viva con la seconda puntata di Mondo operaio, sono successe talmente tante altre cose che, davvero, se non la scrivo subito, non la scrivo più.
Torniamo a quel lontano (issimo) giorno di fine maggio. Il 29 maggio, per essere precisi. Svegli dall'alba, noi bipedi (e inconsapevolmente i quadrupedi) immaginavamo che la giornata incipiente sarebbe stata lunga. Non potevamo tuttavia sapere quanto.
Partiti gatti e marito, mi sono messa in attesa abbastanza zen dei traslocatori. Ci avevano assicurato che sarebbero arrivati alle otto in punto. Si presentano mezz'ora dopo, ma comunque mi avvisano e io, tra me, democratica come sono, mi dico: "e vabbè, un ritardo ci può stare. Sono tanto giovani. Ieri sera forse hanno fatto tardi".
Salgono e cominciano a lavorare all'apparenza con grande alacrità. No, l'alacrità è autentica, ma nel mio animo liberal fanno capolino i primi dubbi. "Ce la faranno a portare tutto entro le 16, termine massimo per l'occupazione del suolo pubblico, da me salatamente pagata?".
No, perché, a naso, continuo a rimuginare, a che cosa serve ammucchiare tutti i pacchi davanti al portone, nemmeno se stessimo allestendo una bancarella da rigattiere, se prima non smonti i mobili?
Diverse ore dopo avremmo avuto risposta al mio, in quel momento, affiorante quesito.
Ed era: certo che avrebbero dovuto innanzitutto smontare e rimontare i mobili e solo in un secondo momento occuparsi di pacchi e valigie.
Imbufalita come un leghista (si cambia facilmente ideologia quando si è sfiniti), ho ancora fissa nella memoria l'immagine di me stessa che sposta pacchi da una stanza alle altre della casa nuova, per fare spazio ai nuovi che i collaboratori del giovane capo azienda continuavano a portare di sopra.
"Signora, lei deve seguire me: dove vanno queste cose?". Mi dice a un certo punto uno dei facchini (perché di questo stiamo parlando. Detto, naturalmente, con il massimo rispetto per la categoria: il problema è che a noi non servivano dei facchini, ma degli operai specializzati in traslochi).
Furibonda, gli borbotto, spostando a mia volta tre-quattro borse alla volta, "di qua, di là", e via discorrendo.
Resosi conto del mio stato d'animo, forse per tentare di rabbonirmi il suddetto facchino commette però un gravissimo errore: prova a fare lo spiritoso.
"E se avevate figli quanti pacchi avevate?". Non reagisco. Ma lui, dopo poco: "Fai la professoressa, signora? Vedo che hai tanti libri". Mia risposta: "No". Secca come una delle mie piante tra breve.
Più avanti: "Ma ve c'entra tutta sssa roba? Pare tando piccola ssa casa".
Sento che dalle narici mi esce qualcosa, del genere fumo sulfureo: "Veramente sono ottanta metri più quindici di soffitta", acida come gli yogurt 0,1.
Finito il "passamano", anzi, lu passamà, come definiscono il passaggio di mano in mano degli scatoloni lungo le scale della palazzina nella quale viviamo dall'altro ieri ufficialmente pure per i vigili urbani, si pone il problema di come (e quando, visto che nel frattempo si sono fatte le dieci di sera) montare la cucina.
Perché, fino a quel momento, l'unico ambiente che i nostri eroi sono riusciti, pezzo più pezzo meno, a riprodurre è la camera da letto. Circondata, anzi, sommersa, dai pacchi che ho dovuto spostare dall'ingresso per far spazio alla varia mobilia pressoché tutta smontata.
Ve la faccio breve.
In questo modo.
Vrrrrrrrr... (suono del trapano, ndr, ripetuto anche più avanti), non gebbbocca ("non ci entra"), vrrrrrrrr.... non iiira ("non gira"), vrrrrrrr, nongebocca, non forzà.
Nei giorni seguenti il bipede è andato avanti con questa litania in vernacolo shtrittu shtrittu svariate volte al giorno. Impossibile scordarlo.
Non sapevo che esistesse la sordina per il trapano, comunque. L'ho scoperto quando, verso le 23.30 circa, il gruppo residuo della provetta squadra ha cercato, effettivamente con sforzo sovrumano, di terminare il lavoro della cucina.
Ce l'hanno fatta, secondo voi? Ma quando mai.
Sporca, tesa, pronta pressoché alla jihad anti-operaista, io comunque, per evitare di scagliare la fatwa su qualcuno, a un certo punto ho rifatto il letto tirando fuori lenzuola e coperte dalla valigia, che mi ero prudentemente preparata all'inizio dell'infinita giornata, e me ne sono andata a dormire.
Per tutto il giorno, peraltro, il marito, in genere polemico e puntuto, si era quasi arrabbiato con me nel vedermi a mia volta polemica e puntuta. A un certo punto, anzi, abbiamo pure un pochino discusso. "Ma insomma, dovevano pur mangiare!". Ma certo, ma figuriamoci. Non sia mai che mi svengano sulle scale (rallentando ulteriormente il lavoro), ma, forse, dico forse, una pausa pranzo di due ore circa è un po' troppo. O no?
Alle 15, infatti, quando tornano a Fermo dove ero rimasta in solitaria attesa da mezzogiorno in poi, praticamente me li sono mangiati (anche perché, al contrario loro, io ero quasi a stomaco vuoto).
Nell'attesa, naturalmente, avevo portato parecchie delle nostre cianfrusaglie sempre nell'androne del gentilizio palazzo fermano, mutatosi del tutto in un bazaar, con il risultato di procurarmi pure una infiammazione al ginocchio sinistro e varie vesciche ai piedi (le all stars sono le scarpe più anti-anatomiche del mondo).
Ma pazienza: sono una che sfacchina (la prossima volta mi faccio ingaggiare da loro, per la precisione voglio lavorare ai comandi di quello che s'impicciava dei fatti miei di cui sopra. Così se lo ammazzo è per legittima difesa).
Il giorno dopo, oltretutto, l'incazzatura mi era già passata.
Sapete chi nel frattempo è diventato nero nero? Il nostro Bipede, of course.
L'ira (iiirante come le balle) gli è scattata quando si è accorto di come avevano rimontato la cucina: cappa e fornelli da una parte, il forno dall'altra.
Non ci ha visto più.
Alle otto (eravamo svegli, facendoci largo tra i cartoni, tipo dalle sei) ha chiamato il capo-banda e gli ha fatto una lavata di testa che riesco solo a immaginare.
Sì, perché ha preferito uscire ben sapendo che sennò mi sarei ri-imbufalita nuovamente.
Il trasloco, sulla carta "fattibilissimo" (cit), alla fine è durato cinque giorni, intervallati, peraltro, da altre piccole disavventure, tipo il tubo della lavatrice attaccato male (leggi: non attaccato), del quale mi sono tristemente accorta solo quando, ovvio, avevo mandato un lavaggio a pieno carico.
Il buco in più nel bagno, che sta ancora lì, quando tentavano di montare (vrrrrrr....) i pensili della cucina.
Non torno sul capitolo elettricisti, ma giorno dopo giorno, ho notato che, ok le canaline, ma qualche presa in più me la potevano pure mettere.
E insomma.
La mia cronaca forse poteva essere più leggera di come non l'abbia buttata giù.
Ma sono ancora piuttosto stanca. E stavolta la casa non c'entra.
O meglio: c'entra, perché comprarla mi ha spinta a ritirare fuori il mio (scarso) super-ego, ossia a partecipare alla preselezione del concorso Rai, ribattezzato dai colleghi #ilconcorsone (c'era pure una domanda su che cosa sia l'hashtag, il che, tutto sommato, ha pure un senso).
Sono combattuta se scriverci su qualcosa. Se lo facessi adesso, sarebbe di una cupezza sconfortante, quindi lascio correre. Vi linko giusto Luca Fazzo, infiltrato (per sua fortuna) per il Giornale.
Vi dico solo che, come il trasloco, che ormai mi sembra già un ricordo lontanissimo, pure l'esperienza umbra sarà presto un ricordo.
E d'altronde: vrrrrrrrr, 2.800 candidati per 100 posti a tempo determinato?
Nongebboccano.
martedì 19 maggio 2015
La vita che cambia e le questioni dirimenti
Tra le questioni dirimenti (poi torno sull'aggettivo che ho appena utilizzato) del mio appartamento sangiorgese c'è la posizione degli attacchi dell'acqua (a sinistra, nella foto) e del gas (a destra, ibidem).
I giovani traslocatori cui abbiamo affidato l'incarico di incollarsi tutta la nostra roba (non poca, ahimè) sostengono che sia un problema risolvibile.
Voglio davvero augurarmelo, perché diversamente saremmo costretti a smembrare la linea della nostra economica ma funzionale cucina e detto sinceramente, in questo momento, non è proprio opportuno.
Tolti i logici problemi di ricollocazione di mobilia e oggettistica varia (la cyclette, per dire, dove la piazziamo?), non riesco ancora a credere del prossimo cambiamento che mi aspetta.
Stamattina raccontavo su Facebook (un luogo perfetto per lo sputtanamento-mascheramento di massa) della punta d'orgoglio provata ieri davanti all'impiegato dell'Enel, che nell'attivare il contratto, mi ha chiesto se fossi affittuaria o proprietaria.
Ebbene sì: ho scandito la parola pro-prie-ta-ria, prestando attenzione al suono della medesima.
Data la positività della sensazione provata, ho capito (se ce ne fosse stato ancora bisogno) che io alla proprietà privata ci tengo. Quindi che con il comunismo, Lenin, Trotskjj etc etc, io non ho niente a che spartire.
Il che, naturalmente, non significa che non presti attenzione ai bisogni/diritti altrui, ma è un semplice dato di fatto, per nulla dirimente: ho bisogno di mettere radici e di sentire che almeno un piccolo posto mi appartiene. E anche il contrario: che io appartengo al primo.
Solo con il tempo capirò se scatterà la seconda parte della faccenda, ma già solo per la prima valeva la pena spendere una certa quantità di denaro.
Come vivrò e di cosa vivrò nei prossimi anni, probabilmente avrò voglia di raccontarlo sempre su questo spazio. E perché ciò non diventi l'ennesima questione dirimente, mi basterà soltanto continuare a comportarmi come in quest'ultimo anno: sgombrando la testa da pensieri e attività inutili e concentrandomi più o meno solo su ciò che mi preme davvero.
Se non avessi fatto così, ora ne sono certa, non sarei mai riuscita a comprare casa.
E' stata dura e lo è ancora, ma accidenti come ci si sente meglio quando si vedono i risultati.
Veniamo all'aggettivo dirimente.
La prima volta che l'ho sentito usare è stato da una mia (amatissima) cugina. Non specifico volutamente chi sia. Mi limito al contesto.
Si stava parlando della tomba dei miei nonni materni che adesso ospita anche mia mamma. Era una crudele giornata d'estate, si trattava di firmare alcune autorizzazioni.
Morire costa un casino, sappiatelo.
Poi l'ho risentito su un tg e ho capito che è di moda (la cugina di cui sopra sta sul pezzo molto più di me, sempre ammesso che si usi ancora quest'orribile espressione gergale).
Da quel momento non me lo sono più scordato e ogni tanto mi torna in mente: quante sono le questioni dirimenti che ci capitano tutti i giorni?
Togliere o tenere le canaline, eliminare o meno i rosoni, dove piazzare i divani graffiati dai mici e il mitico divano letto di Francavilla sono altrettante, dannatissime, questioni dirimenti.
La sera crollo come un operaio dopo otto ore di cantiere. Però, a tratti, come adesso, sento il bisogno di scribacchiare e anche di leggere: inscatolando i libri, ho deciso di lasciare fuori Bel Ami di Maupassant. Mi butto su un classico, o almeno ci proverò, mi sono detta.
Sto cercando anche di non abbandonare l'inglese e la lettura di David Randall per un post semi-professionale che vorrei scrivere prima di non avere più la connessione.
E insomma: è la mia stessa natura a essere dirimente.
Da una parte vorrei (con tutta me stessa, ve l'assicuro) campare del lavoro per cui mi sono preparata (o di qualcosa di simile), dall'altra desidererei cambiare completamente vita, imparando a usare le mani (e il fisico, per i pochi anni che mi restano prima della decadenza) per fare qualcosa di pratico.
Sono convinta proprio che gli esseri umani siano fatti per alternare l'uso di cervello e corpo, mescolando, se possibile, le funzioni dell'uno e dell'altro.
Sono altrettanto convinta che non sia facile usare entrambi nel nostro mondo del lavoro, ma chi è dotato di una buona dose di materia grigia (di cultura, anche) e di salute, in qualche maniera dovrebbe sfangarla. O per lo meno me lo auguro.
Per anni sono stata condizionata dall'ansia: sono abbastanza convinta che se non ne fossi stata così preda ai tempi del mio anno solitario a Milano, la mia vita di oggi sarebbe molto diversa.
E' altrettanto certo che guardarsi indietro non serve a nulla. E anzi, a proposito di corpo, il mio stomaco che gorgoglia mi ricorda che è il caso che lo riempia un pochino.
Con tutte le frustrazioni e i nei del presente, per farla breve, sono contenta di stare dove sto.
Però se vi serve un correttore di bozze, uno (una) scorticatore (trice) di ruggine, una stiratrice abbastanza capace e una specie di coacher motivazionale de noantri, io ci sto.
Come si dice negli annunci, però: AAA astenersi perditempo.
;-)
Alla prossima cronachetta (mutuando il titolo dai libri di Giacomo Nanni).
lunedì 11 maggio 2015
Mark Knopfler: da Madamatap a... Muoversi Insieme!
Orgogliosa di farvelo sapere: ho proposto ai miei committenti un pezzo su Tracker, l'ultimo lavoro del mio amato Mark Knopfler e loro l'hanno accettato.
Perciò eccovelo qui sotto forma di link.
Sopra, invece, una sua recente apparizione alla crucca Radio Bremen. Detto tra noi, accidenti come parla veloce la tedesca!! E del resto lavora in una radio, mica in un monastero Zen.
Buona lettura, ascolto etc etc.
giovedì 7 maggio 2015
Mario Dondero e l'arte di vivere in "Calma e gesso", il documentario di Marco Cruciani
Mario Dondero e i gestori dell'Enoteca di Fermo, 25 aprile 2014 |
Di quel pranzo improvvisato devo ringraziare ancora molto, a distanza di oltre dodici mesi, Laura Strappa, la compagna di Mario Dondero, il grande fotoreporter genovese-milanese che ho conosciuto ormai cinque anni fa a Fermo, in occasione di una memorabile intervista (memorabile per me, naturalmente: chiunque abbia incontrato Mario, anche solo per cinque minuti, sa di che cosa parlo).
Parto da questo ricordo biografico giusto per darvi un'idea della commozione che ho provato ieri sera guardando Calma e gesso, il documentario che Marco Cruciani ha dedicato al grande fotografo, presentato ieri sera alla Sala degli Artisti di Fermo in anteprima assoluta, in occasione - non so se casuale o voluta - del suo ottantasettesimo compleanno.
Dopo una breve (e visibilmente emozionata) presentazione da parte dell'autore, sullo schermo del bel cinema fermano sono seguite due e ore e un quarto di inseguimenti compiuti dal regista nell'arco di ben cinque anni.
Finanziato, almeno in partenza, con un fondo della Regione Marche per il cinema, il film è stato ultimato - come racconta il medesimo regista in un'intervista a Today - grazie al crowdfunding, una moderna ma in verità antichissima forma di autofinanziamento che dovrebbe - si spera - permettere al suo ottimo lavoro di lasciare il nido marchigiano e toccare le principali piazze italiane e straniere, almeno tutte quelle in cui Mario ha lasciato la sua indelebile impronta, come si vede bene nel film, ossia, tra le altre, Genova, Milano, Parigi, Bologna e Locarno.
Una vita donderoad, rubando il neologismo a uno dei molti libri tributo che gli sono stati dedicati, a partire da quel primo, pericoloso viaggio in Val d'Ossola, dove, appena sedicenne, Mario ha fatto il partigiano di città (come racconta lui stesso nel film), non la staffetta, precisa, perché non conosceva i sentieri come i ragazzi del posto.
Da quel momento, la sua certamente genetica capacità di entrare in empatia con gli altri si è impastata di una sorta di comunismo di formazione che si potrebbe definire romantico: forte di questo sentimento appassionato oltre che di un bagaglio culturale non trascurabile, Mario è stato spinto in età già non più verde a ripercorrere i luoghi calcati da Robert Capa ai tempi della Guerra civile di Spagna del 1936, sulle tracce del miliziano ritratto dal reporter americano.
Per quale motivo l'ha fatto, direte voi. Per dimostrare - come racconta il documentario - che il famoso scatto di Capa, quello in cui si vede un giovane uomo in tenuta militare, le braccia spalancate e il fucile in una mano, che pare saltare ma che in realtà sta per cadere a terra colpito a morte, era autentico, non una ricostruzione effettuata a tavolino dal fondatore dell'agenzia Magnum.
A quella vicenda era dedicata un suo reportage uscito su Diario - mostra sempre il documentario - e una mostra in Sardegna, un altro dei luoghi amatissimi dal fotoreporter.
Molto forte è, dicevamo, l'impronta lasciata da Mario su Locarno, luogo nel quale si è voluto ripercorrere il suo fondamentale periodo francese, come sanno tutti quelli che hanno visto - magari sui libri di scuola - lo storico scatto al gruppo di intellettuali parigini passato alla storia come gli esponenti del cosiddetto Nouveau Roman.
Genova è, ancora, un altro luogo che gli ha voluto rendere omaggio, con una retrospettiva che Mario afferma di aver sempre desiderato: sorride contento di sapersi sulla parete del Palazzo Ducale in una gigantografia di uno dei suoi più celebri scatti, si vede sempre nel film.
Don Andrea Gallo (scomparso nel 2013), poi, offre sul fotoreporter, che nella città ligure ha passato vari anni soprattutto dell'infanzia, uno dei giudizi più emblematici contenuto nel racconto per immagini di Cruciani: "Un quinto evangelista portatore di un messaggio di speranza", lo definisce. Il tutto detto senza un filo di retorica.
Analoga è l'impressione che ha Vinicio Capossela che, dallo schermo del cinema, di Mario loda la sua capacità di "valorizzare tutti".
Ed è esattamente questo il motivo per cui ieri sera, come in molte altre occasioni in cui si sapeva che, forse, prima o poi, uno dei principali protagonisti degli anni d'oro del Jamaica, il mitologico bar di Brera a Milano, sarebbe apparso, eravamo così tanti a sentirlo cantare versioni differenti di Bella ciao, pezzetti da Luigi Tenco e altre canzoni che - ahimè - la sottoscritta non conosceva.
Mario è un dispensatore di dignità, una dote che va ben oltre il suo immenso, disordinato e insostituibile archivio di fotografie. Un patrimonio che molti suoi amici stanno cercando tuttora di sistemare, perché non ne vada disperso neanche un frammento.
Bellissimi davvero, tra gli altri momenti del film, quelli in cui noi spettatori siamo stati condotti nello studio fotografico del suo amico romano (purtroppo me n'è sfuggito il nome) che l'ha aiutato a più riprese a stampare e catalogare scatti da Mario dimenticati chissà dove; e altrettanto emozionanti sono i passaggi dedicati all'altro gruppo, quello della Fototeca provinciale di Fermo, in cui si vedono volti esausti - compreso quello del nostro eroe - che tentano di organizzare migliaia di diapositive scrutandole con un ingranditore, sotto la luce fioca di una lampada da scrivania.
Quante nottate avranno passato così, quanti discorsi, quante cene, quanto vino bevuto tutti insieme.
Mario è questo e molto altro, come sa - presumo - anche Marco Cruciani, al quale va il grande merito di aver creduto nel suo progetto, sentendo che andava fatto (come afferma nell'intervista che ho già citato), oltre ogni ragionevolezza.
Agendo così, a mio modestissimo avviso, il regista ha interpretato alla perfezione lo spirito dell'uomo, ben più di un fotografo, ben più di un giornalista, come dicono in molti anche nel documentario.
L'ultima volta che ho incontrato Mario è stato sul pullman Fermo-Porto San Giorgio: era estate, quella di un anno fa. L'ho accompagnato a sistemare il suo orologio, in un affascinante negozietto dall'insegna gialla. Quando entri lì dentro, senti una calma speciale, scandita dal ticchettìo di svariati pendoli alle pareti e dalla radio (la Rai, di solito) in sottofondo.
Ha preso un gelato, dopo, se non ricordo male, e io un caffè. "Perdere la mamma è un colpo durissimo", mi ha detto. Già, Mario. Sarà per questo che uno dei ritratti che più mi piacciono, tra le tante foto che ho imparato a scoprire negli anni, è quella in cui si vede Pier Paolo Pasolini in primo piano, un po' di sguincio, e sullo sfondo, nella stessa posa, sua madre.
Adesso che ci penso, ci siamo incontrati di nuovo forse a inizio autunno. Sono andata come sempre io a rompergli le balle: leggeva come sempre un quotidiano, seduto su una delle panchine di piazza del Popolo, qui a Fermo. Si sentiva stanco, ma niente l'avrebbe tenuto un altro giorno di più imprigionato in una casa o, peggio, in un ospedale.
Se c'è una cosa che ho imparato semplicemente guardandolo è che a vivere non s'impara se non vivendo.
E lui ha vissuto.
E se davvero non avrò più modo di incontrarlo, posso dirmi davvero fortunata per averlo almeno incrociato.
Calma e gesso verrà proiettato questo fine settimana in vari orari alla Sala degli Artisti: chi può vada a vederlo. E soprattutto viva. Come cercherò di non dimenticarmi mai più.
Arrivederci, Mario.
mercoledì 29 aprile 2015
Mark Knopfler parla di Tracker... secondo me!
Chi mi segue sa che ho da poco preso il Toeic per la parte di listening and reading, che è quella ritenuta fondamentale dalle aziende che lavorano in ambito "international". Bene, direte voi. Benino, direi io, considerata la fatica che ho fatto per cercare di tradurre la video-intervista a Mark Knopfler che riporto sopra, sul suo ultimo, straordinario album Tracker.
Mi sono resa conto con estrema chiarezza, infatti, che un conto è capire più o meno il senso delle sue parole (e di quelle di chiunque parli in una lingua che non è la tua), un altro è tradurle letteralmente.
Al di là della logica considerazione che ciò non sia mai possibile con qualsiasi testo registrato in diretta (nessuno pubblica le sbobinature, ci mancherebbe altro), è proprio per me assai ostico capire alcuni passaggi delle considerazioni appassionanti di questo geniale autore di canzoni impressionistiche, nonché finissimo maestro della chitarra, ai più noto come l'ex leader dei Dire Straits, in verità ben più di questo.
E tuttavia vi riporto quel che ne ho carpito qui di seguito (mettendovelo in bella copia), perché lo sforzo fatto comunque dovrebbe consentire a chi sta messo peggio di me con l'inglese di apprezzarne almeno alcune sfumature.
Quelli che, invece, hanno la fortuna (la bravura) di essere più avanti di me, colmeranno le mie lacune semplicemente prestando l'orecchio e gli occhi, enjoying, come dice spesso Mark, al suo ricco mondo d'artista.
Buona lettura.
Starmene seduto nel British grove studio a Chisec, Londra, è per me un privilegio: sono molto orgoglioso di questo luogo, che ho contribuito a costruire nel corso di diversi anni. E' un meraviglioso posto in cui venire a lavorare. Vengo qui quando ho qualcosa da registrare, non quando ho della musica da scrivere. E' qui che ho registrato Tracker, vengo qui giusto a dare corpo alle mie idee (letteralmente dice "to come staggering into the light").
Mi sono resa conto con estrema chiarezza, infatti, che un conto è capire più o meno il senso delle sue parole (e di quelle di chiunque parli in una lingua che non è la tua), un altro è tradurle letteralmente.
Al di là della logica considerazione che ciò non sia mai possibile con qualsiasi testo registrato in diretta (nessuno pubblica le sbobinature, ci mancherebbe altro), è proprio per me assai ostico capire alcuni passaggi delle considerazioni appassionanti di questo geniale autore di canzoni impressionistiche, nonché finissimo maestro della chitarra, ai più noto come l'ex leader dei Dire Straits, in verità ben più di questo.
E tuttavia vi riporto quel che ne ho carpito qui di seguito (mettendovelo in bella copia), perché lo sforzo fatto comunque dovrebbe consentire a chi sta messo peggio di me con l'inglese di apprezzarne almeno alcune sfumature.
Quelli che, invece, hanno la fortuna (la bravura) di essere più avanti di me, colmeranno le mie lacune semplicemente prestando l'orecchio e gli occhi, enjoying, come dice spesso Mark, al suo ricco mondo d'artista.
Buona lettura.
Starmene seduto nel British grove studio a Chisec, Londra, è per me un privilegio: sono molto orgoglioso di questo luogo, che ho contribuito a costruire nel corso di diversi anni. E' un meraviglioso posto in cui venire a lavorare. Vengo qui quando ho qualcosa da registrare, non quando ho della musica da scrivere. E' qui che ho registrato Tracker, vengo qui giusto a dare corpo alle mie idee (letteralmente dice "to come staggering into the light").
E' difficile sapere ciò che succederà dopo che hai scritto una canzone: a volte non è chiaro che cos'era che ti aveva spinto a scriverla e per quale motivo dovresti ritrovarci te stesso è poi un altro dei misteri; un divertente mistero, devo dire, un affascinante mistero. In ogni caso, negli anni, ho imparato a lasciarlo accadere, a renderlo più facile.
"Tracker" è molto simile a "Privateering" e ha a che fare con il mio vecchio modo di lavorare. L'ho chiamato così perché, you know, tu ti senti coinvolto nel cercare un soggetto, nell'investigare nel tuo solito modo, a volte ti succede anche quando sei in giro per il mondo in tour. Ma io "segnalo", "traccio" anche andando indietro nel tempo, come si vede anche in alcune canzoni dell'album, un aspetto che per me diventa sempre più importante man mano che invecchio.
(Segue l'assolo di chitarra dal primo brano di Tracker "Laughs and jokes, drinks and smokes").
Ecco, qui ho buttato giù ("cesellato") questa melodia circolare, pensando a una delle cose più stupide che ho fatto nella mia vita: fumare. Tutti fumavamo sempre, perché eravamo giovani, indistruttibili. Fumare faceva parte del fatto di essere giovani.
(attacca il pezzo)
Ecco, qui ho buttato giù ("cesellato") questa melodia circolare, pensando a una delle cose più stupide che ho fatto nella mia vita: fumare. Tutti fumavamo sempre, perché eravamo giovani, indistruttibili. Fumare faceva parte del fatto di essere giovani.
(attacca il pezzo)
"no lights on the stairs": qui racconto il fatto che nel posto in cui vivevamo la luce delle scale durava solo quindici secondi da quando premevi il bottone, quindi in pratica, prima che tu avessi il tempo di aprire la porta o di andare da qualunque altra parte, ti ritrovavi sempre al buio.
Un altro aspetto di quegli anni è che ci si riuniva tutti insieme, si cantava tutti insieme, faceva parte del nostro ruolo: se fossimo stati da soli, probabilmente non sarebbe successo niente di quel che è successo.
Un altro aspetto di quegli anni è che ci si riuniva tutti insieme, si cantava tutti insieme, faceva parte del nostro ruolo: se fossimo stati da soli, probabilmente non sarebbe successo niente di quel che è successo.
Una delle cose buffe legate al registrare con una band è che devi lasciare accadere le cose, come in "Laughs, and jokes and drinks and smokes", dove, ovviamente la canzone era scritta, ma anche se era scritta, quando la band vi è entrata in contatto, sono successe delle cose ed è magnifico che succedano.
Sono il tipo di persona che ama entrambi gli approcci: adoro essere parte di una band, ma adoro anche essere solo io nello studio con il tipo ai keyboards o all'ingegneria del suono a cesellare e ottenere una piccola mappa e poi lasciare andare la canzone, domandandomi che cosa ne devo fare.
Insomma, io sono uno di quei tipi fortunati che amano entrambe le cose. Quindi alla fine faccio una specie di scommessa con la canzone: se lavorarci da solo, e in questo caso la canzone andrà in un certo modo, lentamente, o se devo coinvolgere tutti gli altri. Perciò è meraviglioso essere parte di questa cosa: oltretutto, per la mia band, il cantante ha sempre ragione e, insomma, sono io il tizio che l'ha scritta (ride)...
In sottofondo le note di "Broken Bones".
Wherever I go
In "Wherever I go" duetto con Ruth Moody, meravigliosa cantante e cantautrice lei stessa, ma anche se lei aveva cominciato a cantare anche negli altri pezzi di quest'album, in questo pezzo ho capito che sarebbe stata perfetta. "Wherever I go" di nuovo racconta di due amici che parlano di quanto non sia importante da quanto tempo non si siano più visti: essendo due buoni amici, avrebbero sempre pensato l'uno all'altra dove si fossero trovati... ed è proprio quanto capita tra grandi amici: quando ti rivedi, non ti sembra di essere mai stati lontani.
(canta).
Registrare una canzone raccoglie davvero un po' ciò che si legge ("quite of bit reading") e questo succede sempre più o meno all'inizio: leggo qualcosa e succede che alla fine si trasforma in qualcos'altro.
In alcune canzoni del passato, come "Sailing to philadelphia", "Telegraph road" o altri tipi di canzoni, c'è qualcosa che entra in conflitto con dove sono io adesso e c'è una collisione e questa è un'idea, ma ho trovato che in ogni atto del creare in genere, una volta compiuto, va da sé. Cioè: una volta scritta una canzone, questa esce di casa e cammina da sé per la sua strada e a sua volta finisce per influenzare ogni successivo atto creativo, ogni "creazione della creazione".
(è una parte per me abbastanza oscura: prendetela con le pinze... meglio di così non riesco!)
Basil
Quand'ero ragazzo, ottenni un lavoro come copy boy il sabato pomeriggio all'Evening Chronicle di Newcastle. Mi davano 6, 6 pence, per lavorare in ufficio, dove c'era un tipo strano, piuttosto chiaramente bisbetico, troppo vecchio per quel posto, e ben più eccentrico del grosso dei tizi che lavoravano al giornale. Scoprii che era il poeta Basil Bunting e già ai tempi ne rimasi affascinato. Era troppo vecchio per il lavoro ed era infelice di lavorare. Ho cominciato a leggere le sue cose anni dopo, quando era già andato via e ho realizzato allora che il tempo l'aveva trasformato.
In qualche maniera, quando hai 14-15 anni, sei uno sprovveduto con tutta la vita davanti, mentre per Basil era tutt'altra storia, e di certo ora guardo il mondo molto più di allora dal punto di vista di Basil (ride).
Quando Basil scrisse il suo poemo epico Briggflatts ottenne molta attenzione nel mondo della letteratura e fu in grado di lasciare il giornale e andare in America e godere del successo: da quel momento venne considerato il più grande poeta vivente dopo T.S. Eliot.
(canta)
Un'altra cosa che capita nelle mie canzoni è che sono un po' come un gioco d'azzardo: non so perché debbano andare in un certo modo e questo mi affascina. Penso che sia questa specie di trascrizione dei pensieri ciò che mi interessa.
Sono sempre stato attratto dalle persone che sono pressoché costrette a fare determinate cose, a fare ciò che fanno. Credo che questo sia il più ricorrente tra i temi che compaiono in ciò che scrivo.
Devi sentirti costretto a fare certe cose: se non lo sei, ciò che ti preme non accadrà.
Beryl
E' una di quelle canzoni che si rifanno al sound dei Dire Straits. Nel testo parlo di Beryl Bainbridge, che è stata una donna eccezionale, una scrittrice eccezionale secondo il mio punto di vista. Ma quel che mi ha attratto è che non è mai stata riconosciuta finché è stata in vita...
Beryl veniva dalla classe operaia di Liverpool, non andò all'università, è vissuta sempre lì.
(canta, suona)
Skydiver
E' nello stile di quel periodo in cui da teenager fui introdotto nello staff dei Beatles: ricordi quel loro pezzo che fa... (lo suona)? Allo stesso modo io faccio: "I've been banned...", etc.
Insomma, è una sorta di approccio chitarristico, ma di nuovo è una questione di tipo artistico, risultato di un amalgama di differenti discipline artistiche.
(Canta)... A un certo punto, inaspettatamente, si inserisce sulla mia la fantastica voce di Ruth, e ne viene fuori qualcosa di veramente speciale... Ruth non si limita a cantare, vive la musica.
River towns
E' un'altra canzone con un personaggio (una character song): in questo caso si tratta di un tizio giovane che sta a bordo di una chiatta su uno dei fiumi americani del Midwest, volevo scrivere del periodo in cui avevo appena scoperto Cold Bristy, J Pancake (non so chi siano, soprattutto il primo, ahimè), un grande spreco di talento, ho voluto raccontare la solitudine di un ragazzo nel giorno di Natale, prostrato da una sorta di rassegnazione... ricordo quando io stesso ero in una band, senza un soldo in tasca, sperduto nella campagna, era Natale e sarei voluto essere a casa, c'era neve dappertutto, guardai oltre lungo la strada ghiacciata e a parte me non c'era nient'altro di vivente che si muoveva... e la canzone viene giù come la neve (sorride). Ricordo chiaramente che cosa ho scelto di fare, con la chitarra nella mia valigia... penso che Tiver towns abbia molto a che fare con la solitudine e con il momento in cui realizzi quanto conti in questo mondo.
(suona)
... quindi si tratta solo di un giovane solo in una "tugboat" a Natale sul fiume e suppongo che io abbia trovato qualcosa in questi personaggi nei quali ci si possa identificare.
Lights of Taormina
E' è una delle canzoni dell'album nelle quali volevo suonare una "slag guitar". E infatti in questa canzone ho usato questa 64 stratocaster, piuttosto vecchia, ma è un'amabile chitarra, che avevo già usato in "Sailing to Philadelphia"... Le ho ridato nuova vita usandola in "Tracker", perché ha un buon suono (la prova).
... adesso non so bene che cosa suonare perché mi piace mescolare (mix up) improvvisazioni... mi ricordo a malapena come faceva (mentre suona).
E insomma è bello quando qualcosa ritorna in auge: è come rincontrare un vecchio amico e scoprire di avere ancora molte cose in comune (sorride). E' un simpatico ciclo.
Sono un tipo fortunato perché se è vero che c'è un ciclo di eventi da quando scrivi una canzone, poi la registri e quindi vai a suonarla davanti alla gente, quando sei capace di goderne interamente, ti puoi ritenere proprio un tipo fortunato. Non capita a tutti.
La vita è abbastanza piena quando ti piace ciò che fai: prendi bene anche le cose inaspettate che capitano. Per esempio, mentre lavoravo a "Tracker", Bob Dylan mi ha chiesto di partecipare a un suo tour, prima europeo, poi americano; quindi ho dovuto interrompere la registrazione dell'album e quando ho ripreso, questo ha influenzato molto il resto del lavoro. E di ciò ne sono molto contento.
Quando sono in tour, è particolarmente buffo vedere questi grossi ex ragazzi portati da qualcuno di famiglia o che loro stessi hanno trascinato al concerto, che alla fine applaudono e hanno il volto pieno di lacrimoni... è proprio una bella sensazione (sorride).
Penso che quando hai trasmesso qualcosa di positivo agli altri, hai fatto la differenza.
Perché quando crei qualcosa e la lasci andare nello stagno, non sai mai che cosa ti tornerà indietro...
Per quanto riguarda me e i milioni di fan che ti adorano oltre ogni dire, caro Mark, è tornato indietro assai.
Thanks a lot, long, cool guy :-)
E voi abbiate pietà della mia traduzione imperfetta...
mercoledì 15 aprile 2015
A scuola di giornalismo... con la sottoscritta!
Sarò sincera (per quanto possibile quando si scrive): nell'autopromozione io sono una schiappa.
E tuttavia, dato che sono in ballo, conviene ballare per davvero.
A questo proposito, tra l'altro, giusto stamattina ho letto dell'esperienza di Mauro Sandrini, il quale, per non perdere mai la forza di lanciarsi in nuovi progetti, semplicemente, balla. Liberamente. Come gli viene.
L'ho scoperto leggiucchiando Facebook, come faccio praticamente tutti i giorni, a quasi tutte le ore, in modo a volte un tantino compulsivo.
I social network - ormai diventati a tutti gli effetti social media - hanno completamente cambiato il mio modo di apprendere le ultime news. Poi, certo, essendo già vecchina, quando voglio approfondire, continuo a ricorrere alla carta stampata.
Quel che tuttavia leggo scrollando banalmente la mia umile bacheca, è di gran lunga più denso di contenuti sinestetici di quanto riesca a cogliere scorrendo le righe di un quotidiano.
E dire che non amo particolarmente stare davanti allo schermo: dopo un po' di tempo con il fondoschiena costretto sulla sedia e il collo proteso in avanti come un formichiere (giraffa proprio no), mi prende una smania di uscire a prendere aria che mai mi coglie nelle ore (mezz'ore, ahimè) che passo sui libri.
Non uso molto Twitter, lo ammetto: ma se Facebook mi fa quest'effetto così immersivo e insieme così ottundente, posso solo immaginare che cosa mi succederebbe se mi facessi fulminare dalla passione per i cinguettii.
Da operatrice - a tempo perso - dell'informazione, non posso altresì (!) ignorare i cambiamenti del mestiere che ho scelto di inseguire nell'arcaico 1999, superando l'esame d'accesso all'Istituto per la formazione al giornalismo "Carlo De Martino", ai tempi finanziato direttamente dall'Ordine dei giornalisti della Lombardia, dal 2006 diventato master in giornalismo dell'Università degli Studi di Milano, con il nome, probabilmente più conosciuto, di Walter Tobagi).
Come sia cambiato il lavoro del giornalista dall'era pre terzo millennio non devo certo dirlo io.
Dubito, tra l'altro, che, allo stato attuale, si possano fare previsioni certe su come evolverà ulteriormente.
Per quanto riguarda me, non posso quasi quasi fare previsioni nemmeno su oggi, figuriamoci se mi metto a tromboneggiare sul destino dei pennivendoli del dopodomani.
Sono stata però coinvolta dall'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente delle Valli del Tenna e dell'Ete (in sigla, Utete) che ha la sede centrale a Grottazzolina, un attivissimo paese in provincia di Fermo, come docente di giornalismo e comunicazione multimediale, per cui, qualcosina devo pur scrivere per presentare il mio corso.
La mia impostazione è pratica (chi ha partecipato ai miei laboratori di giornalismo all'Itis Montani lo sa... almeno spero!) e tenta di rispondere alla seguente domanda: come si informa/comunica oggi? Qual è il confine tra informazione, marketing e puro narcisismo oggi che tutti, potenzialmente, abbiamo modo di digitare, fotografare, filmare, discutere e incontrare, troppo spesso solo virtualmente, tutto il mondo con poche strisciate di dita?
Detto in altri termini, come si riconosce un buon pezzo, servizio multimediale, tweet/post etc etc da una ciofeca?
Chi parteciperà, dovrebbe, alla fine, almeno farsi un'idea di quel che funziona e di quel che non funziona del loro modo di scrivere, twittare, titolare e via discorrendo, comparando quanto ideato con le loro mani con quanto di ottimo c'è in giro sul Web.
Il mio sogno? Spingere più di qualcuno - dotato di sufficiente incoscienza, nonché di denaro di famiglia - a tentare la strada del mestiere più inutile del mondo, se è giovane.
Se è adulto, renderlo più consapevole di come funziona questo inutile straordinario mestiere per orientarsi meglio su cosa leggere, guardare ed eventualmente imitare (potendolo fare: non tutto è replicabile, proprio no).
Chi verrà alle mie cinque lezioni di due ore l'una, ogni mercoledì di maggio e l'ultimo di aprile, dalle 21 in poi, nella sede dell'Utete a Grottazzolina, come leggete nel volantino sopra ripubblicato, potrebbe, alla fine, addirittura divertirsi.
Ve lo premetto: ho una vocina un po' sottile che diventa quasi un ultrasuono quando sono costretta a tirarla fuori, ma sorrido assai e ho molta voglia di incontrarvi e di sentire quello che voi vi aspettate da me. Per quanto possibile, cercherò di soddisfare le vostre richieste.
E adesso, forza, tutti a iscrivervi! Non ve ne pentirete.
;-)
Thank you very much, folks.
giovedì 13 novembre 2014
Donatella Di Pietrantonio a Fermo: un miracolo destinato a sedimentare
Io credo nei miracoli che la gente può fare, canta Cristina Donà nel penultimo album: del suo pezzo ho sentito qualche settimana fa la versione acustica con kazoo, uno strumento che ho imparato a conoscere e amare con il "mio" Maestro astigiano.
Più di qualcuno mi ha accusato di essere un po' buonista, anche se in genere me lo hanno detto in tono scherzoso.
Sapete che vi dico? A volte vorrei esserlo davvero: solo così potrei, forse, risparmiarmi questa continua alternanza di speranza e disillusione.
E in ogni caso io ai miracoli ci credo per davvero.
Esattamente come canta Cristina, quelli migliori vengono proprio dalla gente che tanto ci spaventa.
Dalla medesima, certo, possono arrivare anche discrete batoste, ma che bisogno c'è di ribadirlo ogni volta?
Quel che ho vissuto sabato scorso al Centro San Rocco di Fermo, per dire, è un esempio del tipo uno (più zuccheroso del diabete).
In un luogo nel quale normalmente mi sentirei a disagio, ho invece vissuto momenti di infinita armonia. Il merito è tutto di Guglielmina Rogante, la mia cara amica professoressa-ricercatrice che fa parte del centro culturale fermano.
E' stata lei a propormi di dialogare con Donatella Di Pietrantonio, la scrittrice abruzzese che ho conosciuto due anni chiamata (letteralmente) dal suo esordio nel romanzo, Mia madre è un fiume, trovato per caso in una libreria di Pescara.
Davanti a una platea attenta, in una sorta di trance concentrato, ho posto le mie domande a Donatella, favorita grandemente dall'introduzione di Guglielmina, che con la sua consueta (per me e per chi ha avuto occasione di ascoltarla) preparazione e sensibilità, è riuscita a cogliere diversi aspetti della produzione letteraria della scrittrice nativa di Arsita, nel Teramano, ma da anni residente a Penne, un incantevole borgo del Pescarese, predisponendo quest'ultima al confronto aperto e sentito che poi ha avuto seguito.
Tra le osservazioni di Guglielmina mi ero annotata, forse per dominare un po' la mia ansia, le seguenti parole: "lingua che non si autocompiace", "sguardo femminile", il terremoto aquilano come "metafora di tutti i crolli"; e poi ancora "evoluzione impercettibile dei sentimenti dei protagonisti" con conseguente "metamorfosi interiore di tutti i personaggi".
Il tutto era riferito non solo al primo romanzo, evidentemente, ma anche a Bella mia, il secondo dedicato all'Aquila e alle lacerazioni soprattutto interiori che tuttora albergano nei cittadini del capoluogo abruzzese a distanza di quasi sei anni dal sisma.
Di Donatella Di Pietrantonio Guglielmina riconosceva poi la sua appartenenza fortissima all'Abruzzo, nella lingua "pietrosa" e nell'attenzione quasi inconscia alla memoria collettiva della sua gente: una gente dedita alla cura della terra e alla pastorizia, rimasta in massima parte povera per millenni, oggi strappata a quei ritmi antichi da una globalizzazione forse ancora più disorientante.
Come si riemerge dal lutto, interiore e sociale, sembra chiedersi pagina dopo pagina Donatella?
Quando si comincia davvero a farlo, le ho chiesto a mia volta a un certo punto del nostro dialogo?
Donatella lo ha mostrato con precisione in entrambi i romanzi.
Ho trovato davvero illuminante quando, riferendosi al primo, lo fissa in quell' "adesso basta", che pronuncerebbe dentro di sé l'io narrante, la figlia di Esperina Viola, colei che deve accettare, volente o nolente, di non essere stata sufficientemente amata dalla madre che ormai le si presenta come un albero secco sotto la cui ombra non si può più giustificare.
E ho in cuor mio ringraziato moltissimo Donatella quando ha esposto pubblicamente il rovescio della medaglia di ogni amore, persino di quello verso i figli. Non c'è alcun "ti amo" che non nasconda anche un "ti odio", ha detto proprio la scrittrice. Ed è solo oggettivando i nostri sentimenti, pure i più crudeli, che possiamo cominciare a guarire.
Non ha, tra l'altro, neanche avuto paura di confessare i suoi lunghi anni di analisi: per lei sono stati anzi fondamentali per imparare a scrivere per davvero.
E io credo che abbia proprio ragione: la rabbia, per esempio, va riconosciuta, va per l'appunto "oggettivata" in qualche maniera, per poterla raccontare.
In parte, mi è successo così quando ho narrato su questo blog del terribile incubo ospedaliero.
Temo però di non essere ancora del tutto guarita: ogni tanto, mi sveglio nel cuore della notte, e mi ricordo di tutto.
Mi ha molto sollevato, pensandoci per un breve flash, durante l'incontro di sabato scorso, sentire dalla bocca di Donatella la definizione che Ennio Flaiano, altro grande abruzzese, benché emigrato nella capitale, dava del medico contemporaneo, da lui chiamato "il cretino specializzato".
E mi ha emozionato alquanto percepire l'imbarazzo che la scrittrice sottolineava di aver provato nel presentare la sua storia aquilana nella città ferita. Chi sono io, si è detta, per parlare di un dolore che non ho vissuto direttamente?
Ed è esattamente per questo motivo che bisognerebbe sempre pesare le proprie parole, soprattutto quando presuppongono un pubblico.
Chi scrive per mestiere ha una grande responsabilità, insomma. E anche chi lavora con il dolore altrui.
Per tutte queste ragioni, sono davvero contenta del miracolo di un incontro destinato a sedimentare.
Sono certa che mia mamma, con me nella gonna che indossavo e non solo in quella, è stata felice per me.
Alla prossima, belle donne.
:-)
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giovedì 23 ottobre 2014
Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori
A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.
Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.
Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.
Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.
Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.
Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.
Buoni giorni, amici.
mercoledì 15 ottobre 2014
Paolo Conte e la magia che si rinnova. Crescendo ancora
Gli anticorpi non collaborano, ma cerco di non pensarci concentrandomi piuttosto su ciò che di bello mi è successo non meno di ventiquattr'ore fa.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.
Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.
Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.
Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo.
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.
Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.
Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.
Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.
E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.
A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.
Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.
Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.
Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.
Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.
Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.
In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.
Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.
Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.
Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.
Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato Snob, l'ultimo album del Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.
Perché se è vero che nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in Snob ho trovato anche una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.
Molto originale è per dire l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno davvero scaldato il cuore.
Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo.
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.
Ieri sera, dopo tanto tempo, mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.
Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece, innamorarmi di Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.
Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte, sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.
E chissà se quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.
A differenza sua, però, a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma, anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano diversi brani del nuovo disco, in particolare Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte, Incontro e soprattutto L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla Settimana enigmistica.
Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.
Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente, cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.
Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano, Argentina e Manuale di conversazione, più che Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e Maracas.
Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me, l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.
Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album Elegia, la freschezza di brani come Messico e Nuvole e Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.
In Snob, invece, la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.
Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente, non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati, Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.
Sto parlando anche di me, è evidente, ma la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.
Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella magia.
Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.
martedì 22 luglio 2014
Il mio sogno verde comincerà
Stamattina sognavo di piangere al telefono con un tipo che non vedo né sento da anni. Si tratta di una persona con cui ho lavorato anni fa, quando ancora credevo nel giornalismo sociale.
Mi spiace, ma non ci credo più, anche se le ultime cose che ho fatto hanno più o meno riguardato lo stesso ambito dal quale sono partita.
Tutto ciò che scrivo, lo scrivo onestamente, sia chiaro, ma mi sono ormai convinta che non esista il giornalismo dei buoni e quello dei cattivi. Esiste, sempre e comunque, il buono e il cattivo giornalismo. E il mio è un buon esempio di lavoro fatto con il cuore e la testa, ma non è giornalismo.
Non lo è semplicemente perché non scrivo per nessuna testata importante, che è l'unica maniera per far passare il proprio messaggio. Almeno in una società come la nostra, sempre più rapida e poco incline all'approfondimento. Chi approfondisce, voglio dire, è un numero limitato di persone; io stessa, quando ho più tempo, mi accorgo di quante cose ignoro dell'attualità.
Nel mio sogno chiudevo la telefonata dicendo "tanto cambierò lavoro, quindi che cosa vuoi?". Però piangevo, piangevo come una bambina, consapevole che il sogno degli anni d'oro se ne sia andato con il tempo volato via.
Adesso ne comincerà un altro. I buddisti sarebbero fieri di me per questa mia auto-iniezione di coraggio. Sì, ne comincerà uno nuovo, verde, come uno dei miei colori preferiti. Più sereno, più pratico, anche.
Cambierò lavoro. Ci proverò con tutta me stessa. Sperando di poter continuare comunque a scribacchiare, questo sì. Perché senza le lettere rotolanti io non ci so proprio stare.
Non chiedetemi che cosa farò. Sono curiosa anch'io di scoprirlo.
Ma il sogno verde sta per arrivare. Anche se questa canzone parla di un commiato, non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci a un'esperienza che doveva comunque finire.
Tutto finisce, tutto passa. E tutto ricomincia sotto un'altra forma. E da un'altra parte.
Vero, mamma?
mercoledì 2 luglio 2014
Un vuoto dopo l'altro, e l'Iva se ne va
E' fatta: la partita Iva è chiusa. Quando sono uscita dallo studio della commercialista, mi è venuto istintivo dirigermi verso il Passetto, simbolo della città di Ancona che conosco veramente poco.
Paradossalmente, la zona che mi è più nota del capoluogo regionale marchigiano è proprio quella intorno al monumento presumo di origine neoclassica.
Non ho fatto granché un affare a venire da queste parti, ormai lo posso dire senza infingimenti.
Il correttore automatico mi segna l'ultima parola della precedente frase come errore. Non la cambio, tanto, a che cosa mi serve saper scrivere?
Mi stoppo immediatamente, non ho intenzione di lagnarmi. Facevo solo della stupida ironia vagamente partenopea. A dirla tutta, sto pensando come al solito a Totò e al suo meraviglioso lamento arabeggiante nel personaggio di Le Mokò "io non ci volevo venireeeee", quando scopre di trovarsi nella casbah in gravi, comicissime, pesti. Ogni volta che vedo quella scena mi escono le lacrime, dalle risate.
E insomma. Non avevo scelta. Non avendo guadagnato granché lo scorso anno (quest'anno non ne parliamo proprio), non potevo di certo correre il rischio di farmi massacrare dal Fisco.
Ai tempi della chiusura della Voce delle Marche mi si diceva continuamente "si chiude una porta, si apre un portone". Era novembre 2007: sette anni dopo mi pare che si sia aperta una bella voragine.
So che il problema non riguarda solo me. La mia commercialista non sembrava particolarmente sorpresa davanti alla mia decisione: devo essere stata l'ultima di una lunga serie.
Mi trovo a sperimentare nuovamente quell' "e dopo?" che ho descritto in un raccontino che (mi pare) potete trovare nella pagina in alto, sul mio passato di pseudo-scrittrice.
Solo che adesso ho quasi 43 anni e temo seriamente che il dopo sia la caritas che immaginava mia madre, equivocando la parola che le avevo detto al telefono, ossia "carisap", una banca che oggi non esiste più.
Mio cognato italo-tedesco oggi se ne va da suo padre nella terra che gli ha dato i natali, ma da quel che ho capito saranno vacanze molto diverse. Inconsciamente spero quasi che ci spiani la strada.
Come ho detto a qualcuno, questi sono strani giorni: mi sento più lucida e confusa che mai.
Ho in testa tutti gli errori commessi e tutte le strade che non voglio (o posso) più percorrere, ma non riesco ancora a decidermi da dove cominciare. Da dove ricominciare.
Torno a vivere a Chieti? Provo a mandare curricula dove capita in regioni più dinamiche?
Organizzo altre presentazioni del libro? Compro una casetta e l'affitto? E poi come campo, però?
Sapete come ho reagito all'affollamento della mia testa? Andando al mare.
Mi sono incremata ben bene, ho preso il mio libro in inglese per sentirmi meno in colpa e via, lettino, occhiali da sole, cappello di paglia, tutto il pomeriggio.
E adesso, via, verso mio padre, che ha bisogno di me. Almeno a qualcuno sono utile.
Passerà, lo so. Passa sempre. Passa tutto, del resto.
venerdì 30 maggio 2014
Sulla dottoressa anti-badanti: le doverose aggiunte
Fermo avrà tanti difetti, ma non posso negare che la vista da quassù mi abbia un pochino rinfrancato, insieme (ovvio) a mio marito e ai nostri gatti. Questi ultimi, in verità, mi hanno un tantino scansato, visto che non mi vedevano da molti giorni. Ma alla fine sono riuscita ad acchiapparli e a spupazzarmeli qualche minuto.
Adesso abbiamo il tuttofare che lavora in bagno, per cui sono fuggiti di nuovo. Sono molto rassicuranti nella loro totale asocialità.
Volevo tornare giusto un attimo sulla testimonianza trascritta ieri che ha suscitato qualche rimbrotto da parte da qualcuno.
Come ho scritto su Facebook in risposta (in particolare) alla mia amica Silvina, non avevo alcuna intenzione di generalizzare l'esperienza vissuta dalla dottoressa di mia madre, ma solo di fissare a futura memoria un discorso che aveva più di qualche fondamento. E che non annulla affatto quanto ho scritto qualche giorno fa sulla badante di mia mamma, una signora albanese di grande forza e intelligenza.
Ho però tralasciato qualche dettaglio importante.
Innanzitutto, la conclusione amarissima cui la medesima (assai urticante) dottoressa è giunta: Quando ero giovane - considerava - ai tempi del Pci, lottavamo perché tutti fossero uguali. Ho capito nel tempo che non solo non lo siamo affatto, ma che in verità non è neanche giusto che si venga tutti giudicati allo stesso modo. Da medico, considerati tutti i sacrifici che ho fatto e faccio, dovrei essere pagata miliardi, e invece se ho qualcosa è solo perché ci hanno pensato i miei genitori a darmi una mano, mentre gente che non ha studiato, ma ha pensato solo a far soldi, adesso si permette anche di darmi lezioni di vita. Ma avevano ragione loro: studiare non conviene. Dal tutti uguali siamo arrivati all'esatto rovescio: adesso chi studia e si fa il mazzo, è destinato a essere considerato zero. Per questo, adesso, quando sento le storie di queste donne che arrivano da paesi più poveri non mi commuovo più.
Ripeto: sono parole non mie, ma che mi hanno fatto molto riflettere.
Io neanche mi sono commossa ascoltando Ina, però ho provato rispetto nei suoi confronti.
Vorrei tuttavia che anche lei, o chi per lei, provasse rispetto per me, cosa che invece, troppo spesso, non succede. E sapete perché?
Perché sono povera, ma di una strana forma. Sono una povera di ritorno che ha commesso tanti errori, certo, ma ha sempre sudato tutto quel che ha fatto. Ma siccome non urlo, non sgomito, non sentenzio, non conto un accidente. Neanche per i troppi finti amici che a parole mi stanno vicini, ma che in verità se ne fottono di me e della mia storia. E vi giuro che parlo con cognizione di causa. Mi sono semplicemente svegliata, il principe azzurro è finalmente arrivato a baciarmi la fronte.
Aggiungo di essere una povera fortunata, certo, ma come mi ha giustamente detto Ina ieri sera, sono una persona onesta come lo sono i miei genitori: "le radici buone danno frutti buoni", ha considerato, e poi ha aggiunto, nella sua saggezza popolare, "che sono le persone migliori a subire le peggiori sofferenze".
E adesso non sto certo parlando di me.
Insomma: non si può generalizzare né in un senso né in un altro, ma finché non vedrò un reale e concreto segnale di cambiamento in chi oggi è nelle stanze dei bottoni, non farò più sconti a nessuno.
Come ho scritto sempre su Facebook, non confondiamo la bontà e la generosità con il buonismo, il vero male italiano (italiota): non scambiamo gesti concreti di apertura e accoglienza profonda con i proclami del nuovo politico in auge. Teniamo orecchie e cervello teso e ascoltiamo, veramente, gli altri.
E comunque grazie a chi mi ha letto.
E' sempre un onore.
giovedì 29 maggio 2014
Badanti straniere, stop al pietismo
A quest'ora dovevo essere dalla mia parrucchiera a farmi un trattamento probabilmente inutile ai capelli. E invece, per via di uno sciopero dei treni di cui non avevo la più pallida idea, sono a pochi chilometri dall'orrido posto. Che, detto tra parentesi, è meno brutto di altri ospedali, ma resta pur sempre un luogo di grande, grandissima sofferenza, tranne che per pochi casi (le nascite: ho incontrato diverse giovani mamme con i loro frugoletti. Mai provata una tenerezza così partecipata, dev'essere un'altra strategia psicologica di resistenza).
Volevo prendermi due giorni di pausa. Non di più. Giusto due giorni per tornare alla mia vita, precaria assai, sì, ma comunque cadenzata da impegni e pure qualche piacevolezza.
Tutto rimandato a domani, ma scrivere da questa casa innaturalmente silenziosa non mi dà molto conforto.
Scrivo per sfogarmi, come altri pregano, cantano, piangono.
Volevo raccontare della dottoressa di mia madre e della sua visione dell'immigrazione dal generico Est, ma mi accingo a scrivere lo stretto indispensabile: sono troppo stanca.
Accenno solo alla reazione di mia madre, che ascoltava e nonostante la debolezza evidente, annuiva.
Basta con il pietismo nei confronti di queste stronze che si insediano nelle nostre case e poi ce la mettono in quel posto, sosteneva con parole un tantino meno dirette (ma solo per il luogo in cui ci trovavamo, altrimenti, secondo me, ne avrebbe dette di ben peggiori).
Anche noi abbiamo fatto un sacco di sacrifici, ma chi ce li riconosce? Aggiungeva.
Ricordiamoci della nostra storia, proseguiva, pure noi non avevamo niente.
I miei genitori erano poveri come loro, ma mi hanno fatto studiare e se io oggi ho qualcosa è solo grazie a loro. Sono medico, ma a me nessuno mi ha dato niente. Me lo sono sudato fino all'ultimo.
Poi arriva la stronza di turno che si fa assumere per ottenere il permesso di soggiorno, dopodiché, una volta avutolo, si licenzia e a distanza di qualche mese mi fa una causa di lavoro sostenendo che l'ho tenuta un mese in nero. Ma ti rendi conto?
La simpatica badante, precisava il medico di mia madre, si è fatta assistere da una battagliera sindacalista della Cisl, contro la quale non c'è stato nient'altro da fare che patteggiare. Perché, sì, il mese di nero c'era stato, ma l'aveva voluto lei proprio per via del permesso di soggiorno scaduto. Quest'ultimo, peraltro, rinnovato indicando come residenza la casa dell'anziana madre (cieca) della medesima dottoressa.
La povera vecchia è passata, insomma, per una sfruttatrice del povero lavoro migrante.
Com'è finita questa storia? Vivendo sua madre a cento chilometri da lei, in un piccolo paese dell'entroterra abruzzese, non c'era altra scelta che portarla alla casa di riposo.
Almeno lì, mi ha spiegato la dottoressa, ci lavorano tutte persone del posto ed è trattata bene.
Certo, la mettono a letto alle otto e mezzo, mentre lei era abituata a restarsene in piedi fino a mezzanotte davanti alla tv. Anche se poi le ho detto: ma mamma, quando mai l'hai guardata fino a così tardi? Dopo poco ti addormentavi!
Anche la mia mamma guarda (guarda) la tv fino a tardi, ma a un certo punto, se ti affacci in cucina, la trovi con la testa reclinata sul petto.
Non so dare un giudizio così tranchant sul fenomeno del badantato straniero, però devo ammettere che un po' d'accordo con lei lo ero.
Quanti sacrifici sto facendo e ho fatto anche io finora?
A saperlo prima andavo a lavorare a diciotto anni (ma pure prima) anziché studiare.
Non è mia intenzione lamentarmi, però, se non ho votato e non voterò, penso, per un bel po' di anni a venire, è perché di me e di quelli come me non si occupa nessuno.
Ho la grandissima fortuna di essere stata cresciuta da due persone che dirvi eccezionali è poco, ma posso garantirvi che non mi sono mai risparmiata, mai mi sono tirata indietro, mai ho preteso chissà quale trattamento privilegiato.
Ho sbagliato. Conveniva tentare il colpaccio di sposare un milionario. Ma ormai è tardi.
A questo punto mi restano poche strade. Una delle più praticabili è proprio quella di andare a fare la badante nell'est alle signore (signore? non tutte) che adesso stanno guadagnando abbastanza per tornarsene indietro ricche.
Sarei un'ottima dama di compagnia capace sia di svolgere mansioni pratiche sia di intrecciare conversazioni su svariati argomenti.
Pensateci, future anziane dell'est.
Nel frattempo, incrocio le dita. E, a mio modo (ateo, ebbene sì) prego.
Ci deve essere ancora un po' di giustizia, da qualche parte.
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