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lunedì 9 novembre 2015

Murakami e l'attrazione irresistibile per il micro



Non riesco a smettere di leggere Murakami.
La vita di una persona di una certa età è più amara per la maggior parte del tempo, ed è anche per questa ragione che quando si passano ore in appassionata letteraria compagnia, sembra davvero un miracolo.

Ammetto, comunque, che il clima mite di questo inizio novembre mi stia aiutando non poco a mantenermi lucida. A tratti persino incoscientemente positiva.

Ho spedito un po' di curricula. Nella maggior parte dei casi si tratta di candidature che niente hanno a che fare con il percorso seguito finora.
L'avevo detto e l'ho fatto (sto cominciando a farlo).
Secondo la logica buddista di mia sorella (le poche nozioni che ho in materia sono mediate dalla sua esperienza di neo-adepta), già desiderare fortemente il cambiamento, ti predispone su quella strada.

Sinceramente, visto quel che mi è successo con il concorsone Rai, non credo basti la forza di volontà.
A forza di sentirmi dire dagli amici più cari, anzi, che sarei stata adatta a fare tv, che era arrivato il mio momento etc etc, avevo quasi quasi cominciato a crederci pure io. Per cui potete immaginarvi che delusione ritornare alla realtà.
E tuttavia, nel segreto della mia psiche, ho sempre saputo che poteva benissimo non succedere nulla.

Prima dell'estate, anzi, già mettendomi a cercare con sempre maggiore determinazione la casa qui sul mare, mi ero detta che dovevo ricominciare daccapo. Magari il concorsone è stata solo un'utile distrazione.

Ho avuto infatti l'occasione di leggere molti giornali, di riprendere il tedesco, di ascoltare/guardare un sacco di video in inglese, di riflettere sul mondo dei media e poi, ma sì, di divertirmi a fare prove di improvvisazione in video. Alla fine non ho fatto altro che impiegare il tempo in un modo creativo, come, tutto sommato, faccio tutti i giorni. In privato e quasi in segreto, com'è mio uso.

In definitiva, questo del blog, così minuscolo, continua ad essere la mia dimensione ideale.
Poi, sì, ho bisogno di lavorare (come quasi tutti), ma dubito che se fossi uscita dall'anonimato piombando in kafkiani corridoi aziendali, questo mio istinto alla fuga verso il micro sarebbe passato.

L'unica, sostanziale, differenza rispetto a quando ero più giovane è che oggi ne sono consapevole.
Non ho nulla da dimostrare se non a me stessa.
Da me, sempre, cercherò di pretendere il massimo dell'attenzione. Del rigore e della forza.
Queste doti (sì, sono doti) mi hanno comunque permesso di raggiungere il principale obiettivo che mi ero prefissa negli ultimi anni: comprare la casa.

Non vedo perché adesso dovrei tornare indietro.
Quindi, rifacendomi al titolo della foto che vedete sopra, su il sipario.

(Non vedo l'ora di continuare nella lettura stregata).

martedì 19 maggio 2015

La vita che cambia e le questioni dirimenti


Tra le questioni dirimenti (poi torno sull'aggettivo che ho appena utilizzato) del mio appartamento sangiorgese c'è la posizione degli attacchi dell'acqua (a sinistra, nella foto) e del gas (a destra, ibidem).
I giovani traslocatori cui abbiamo affidato l'incarico di incollarsi tutta la nostra roba (non poca, ahimè) sostengono che sia un problema risolvibile.
Voglio davvero augurarmelo, perché diversamente saremmo costretti a smembrare la linea della nostra economica ma funzionale cucina e detto sinceramente, in questo momento, non è proprio opportuno.

Tolti i logici problemi di ricollocazione di mobilia e oggettistica varia (la cyclette, per dire, dove la piazziamo?), non riesco ancora a credere del prossimo cambiamento che mi aspetta.
Stamattina raccontavo su Facebook (un luogo perfetto per lo sputtanamento-mascheramento di massa) della punta d'orgoglio provata ieri davanti all'impiegato dell'Enel, che nell'attivare il contratto, mi ha chiesto se fossi affittuaria o proprietaria.
Ebbene sì: ho scandito la parola pro-prie-ta-ria, prestando attenzione al suono della medesima.

Data la positività della sensazione provata, ho capito (se ce ne fosse stato ancora bisogno) che io alla proprietà privata ci tengo. Quindi che con il comunismo, Lenin, Trotskjj etc etc, io non ho niente a che spartire.
Il che, naturalmente, non significa che non presti attenzione ai bisogni/diritti altrui, ma è un semplice dato di fatto, per nulla dirimente: ho bisogno di mettere radici e di sentire che almeno un piccolo posto mi appartiene. E anche il contrario: che io appartengo al primo.

Solo con il tempo capirò se scatterà la seconda parte della faccenda, ma già solo per la prima valeva la pena spendere una certa quantità di denaro.
Come vivrò e di cosa vivrò nei prossimi anni, probabilmente avrò voglia di raccontarlo sempre su questo spazio. E perché ciò non diventi l'ennesima questione dirimente, mi basterà soltanto continuare a comportarmi come in quest'ultimo anno: sgombrando la testa da pensieri e attività inutili e concentrandomi più o meno solo su ciò che mi preme davvero.
Se non avessi fatto così, ora ne sono certa, non sarei mai riuscita a comprare casa.
E' stata dura e lo è ancora, ma accidenti come ci si sente meglio quando si vedono i risultati.

Veniamo all'aggettivo dirimente.
La prima volta che l'ho sentito usare è stato da una mia (amatissima) cugina. Non specifico volutamente chi sia. Mi limito al contesto.
Si stava parlando della tomba dei miei nonni materni che adesso ospita anche mia mamma. Era una crudele giornata d'estate, si trattava di firmare alcune autorizzazioni.
Morire costa un casino, sappiatelo.

Poi l'ho risentito su un tg e ho capito che è di moda (la cugina di cui sopra sta sul pezzo molto più di me, sempre ammesso che si usi ancora quest'orribile espressione gergale).
Da quel momento non me lo sono più scordato e ogni tanto mi torna in mente: quante sono le questioni dirimenti che ci capitano tutti i giorni?
Togliere o tenere le canaline, eliminare o meno i rosoni, dove piazzare i divani graffiati dai mici e il mitico divano letto di Francavilla sono altrettante, dannatissime, questioni dirimenti.

La sera crollo come un operaio dopo otto ore di cantiere. Però, a tratti, come adesso, sento il bisogno di scribacchiare e anche di leggere: inscatolando i libri, ho deciso di lasciare fuori Bel Ami di Maupassant. Mi butto su un classico, o almeno ci proverò, mi sono detta.

Sto cercando anche di non abbandonare l'inglese e la lettura di David Randall per un post semi-professionale che vorrei scrivere prima di non avere più la connessione.
E insomma: è la mia stessa natura a essere dirimente.
Da una parte vorrei (con tutta me stessa, ve l'assicuro) campare del lavoro per cui mi sono preparata (o di qualcosa di simile), dall'altra desidererei cambiare completamente vita, imparando a usare le mani (e il fisico, per i pochi anni che mi restano prima della decadenza) per fare qualcosa di pratico.
Sono convinta proprio che gli esseri umani siano fatti per alternare l'uso di cervello e corpo, mescolando, se possibile, le funzioni dell'uno e dell'altro.

Sono altrettanto convinta che non sia facile usare entrambi nel nostro mondo del lavoro, ma chi è dotato di una buona dose di materia grigia (di cultura, anche) e di salute, in qualche maniera dovrebbe sfangarla. O per lo meno me lo auguro.
Per anni sono stata condizionata dall'ansia: sono abbastanza convinta che se non ne fossi stata così preda ai tempi del mio anno solitario a Milano, la mia vita di oggi sarebbe molto diversa.

E' altrettanto certo che guardarsi indietro non serve a nulla. E anzi, a proposito di corpo, il mio stomaco che gorgoglia  mi ricorda che è il caso che lo riempia un pochino.

Con tutte le frustrazioni e i nei del presente, per farla breve, sono contenta di stare dove sto.
Però se vi serve un correttore di bozze, uno (una) scorticatore (trice) di ruggine, una stiratrice abbastanza capace e una specie di coacher motivazionale de noantri, io ci sto.
Come si dice negli annunci, però: AAA astenersi perditempo.

;-)
Alla prossima cronachetta (mutuando il titolo dai libri di Giacomo Nanni). 

martedì 22 luglio 2014

Il mio sogno verde comincerà





Stamattina sognavo di piangere al telefono con un tipo che non vedo né sento da anni. Si tratta di una persona con cui ho lavorato anni fa, quando ancora credevo nel giornalismo sociale.
Mi spiace, ma non ci credo più, anche se le ultime cose che ho fatto hanno più o meno riguardato lo stesso ambito dal quale sono partita.
Tutto ciò che scrivo, lo scrivo onestamente, sia chiaro, ma mi sono ormai convinta che non esista il giornalismo dei buoni e quello dei cattivi. Esiste, sempre e comunque, il buono e il cattivo giornalismo. E il mio è un buon esempio di lavoro fatto con il cuore e la testa, ma non è giornalismo.

Non lo è semplicemente perché non scrivo per nessuna testata importante, che è l'unica maniera per far passare il proprio messaggio. Almeno in una società come la nostra, sempre più rapida e poco incline all'approfondimento. Chi approfondisce, voglio dire, è un numero limitato di persone; io stessa, quando ho più tempo, mi accorgo di quante cose ignoro dell'attualità.

Nel mio sogno chiudevo la telefonata dicendo "tanto cambierò lavoro, quindi che cosa vuoi?". Però piangevo, piangevo come una bambina, consapevole che il sogno degli anni d'oro se ne sia andato con il tempo volato via.

Adesso ne comincerà un altro. I buddisti sarebbero fieri di me per questa mia auto-iniezione di coraggio. Sì, ne comincerà uno nuovo, verde, come uno dei miei colori preferiti. Più sereno, più pratico, anche.
Cambierò lavoro. Ci proverò con tutta me stessa. Sperando di poter continuare comunque a scribacchiare, questo sì. Perché senza le lettere rotolanti io non ci so proprio stare.

Non chiedetemi che cosa farò. Sono curiosa anch'io di scoprirlo.
Ma il sogno verde sta per arrivare. Anche se questa canzone parla di un commiato, non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci a un'esperienza che doveva comunque finire.
Tutto finisce, tutto passa. E tutto ricomincia sotto un'altra forma. E da un'altra parte.
Vero, mamma?

giovedì 24 ottobre 2013

#ISPF2013 + Library, a place for people: il mio video!



E oggi bis alla Romolo Spezioli di Fermo... se non vado errata, anche qui il tema da raccontare per foto o parole, o con tutte e due, è sempre il lavoro. Spero di non farmi prendere dallo spirito polemico o, peggio, depresso. In ogni caso, una sfaccendata come me non poteva non partecipare. Staremo a vedere. Tornate da queste parti tra qualche giorno, se avete voglia. In generale. Di sapere come sto. Perché se tenere un blog è anche una questione di narcisismo, non è solo questo. Grazie a chi l'ha capito e a chi lo capirà. Bonne chance a noi.

martedì 3 settembre 2013

Sebastiano Nata e il valore dei giorni, secondo me

Porto San Giorgio, vita (dura) da spiaggia

Ho cominciato Il valore dei giorni di Sebastiano Nata con un pizzico di scetticismo. Trovavo la sua prosa eccessivamente piana e mi pareva di scorgervi gli stessi difetti che imputavano alla mia al liceo, quando mi si valutava regolarmente con un sette/sette più e il commento aggiuntivo del tipo "il tema è scorrevole e conciso, la traccia ben seguita" e quasi nulla più.
La scuola ti condiziona tantissimo, anche nell'idea che hai di te stesso, come persona.
E' effettivamente vero che scrivo a mitraglia e che, in genere, faccio poche modifiche alla prima versione. Non so se lo stesso sia capitato allo scrittore romano di origine marchigiana che alla fine mi ha completamente conquistato proprio per via delle sue parole così all'apparenza facili e insieme molto dettagliate.
Nata racconta di due fratelli, dando voce a quello più giovane, Marco Leoni, manager in una grossa multinazionale della finanza. Domenico è il più vecchio, una vita fuori dagli schemi, fuggito via dalla grande città per tornare nella sua piccola città natale, sull'Adriatico: Porto San Giorgio.
Ha avuto una moglie e un figlio, purtroppo tragicamente  scomparso, e l'esperienza l'ha segnato per sempre. Faccio un altro mini passo indietro.
Ammetto di aver comprato questo libro proprio perché era ambientato nello stesso luogo in cui sono venuta a vivere, anch'io, in un certo senso, per fuggire dalla grande città.
Era stato presentato in occasione del premio letterario Paolo Volponi che si tiene tutti gli anni a metà autunno a Porto Sant'Elpidio (e prima proprio a Porto San Giorgio). Il libro di Nata era nella triade dei finalisti dell'edizione del 2010. Non ha vinto e io, che amo i perdenti (il che dice molto sul mio modo di stare al mondo), l'ho comprato.
Non ho idea se Il valore dei giorni abbia comunque avuto altri riconoscimenti, in ogni caso, ve l'assicuro, è un grandissimo libro.
Parla di lavoro, di aridità, di famiglia, di mare e soprattutto di vita e morte.
Descrive con dovizia di particolari la sala di attesa del palazzo del capo di Marco, ristrutturata sapientemente da un architetto di chiara fama, come si dice, e a me è sembrato di essere lì con lui, a macerarmi d'ansia per quel che il freddo francese gli avrebbe detto di lì a poco, addentando i suoi sandwich, un pranzo veloce come si confà agli uomini (e ahimè alle donne) che hanno troppo poco tempo per concedersi un pasto come si deve.
Mi ha poi portato in mare con lui e Domenico, sulla loro barchetta a vela, tra le onde di quel mare che osservo spesso anche dalla collina su cui abito. Sentivo le conchiglie che gli si conficcavano tra i piedi nella lunga passeggiata mattutina sulla battigia, la testa vuota, la bocca amara per le troppe sigarette fumate.
Non voglio dire molto della trama, perché, alla fine, non è così importante. Quel che conta è il modo in cui si dipana e quel senso di fatica e di (probabile, ma non sicura) rinascita che lascia intuire verso la fine.
E' in ogni caso proprio il finale che me l'ha fatto amare in maniera definitiva. Non so se avrei pensato lo stesso qualche anno fa, quando bisognava fingere di farsi attrarre da storie tristi, intellettualeggianti alla The dreamers (ma c'è di molto peggio), il film di Bernardo Bertolucci che ho visto giusto due sere fa su Iris. Sarà un segno dell'età (mi sa proprio di sì), ma sto cominciando a capire che cosa desidero quando apro un libro, guardo un film, vado a una mostra: voglio sognare. Che cosa? Un'altra possibilità, un percorso differente, voglio emozionarmi, magari anche piangere, ma sentirmi viva, sentirmi in qualche misura migliore. Vivere una catarsi, insomma.
Saranno i tempi bui, sarà l'incertezza (a tratti davvero angosciante) su come me la caverò, come ce la caveremo, in ogni caso non ho bisogno di alimentare il mal di vivere, la nausea sartriana, facendomi martirizzare da quegli autori che pensano di avere la verità in tasca (di recente mia sorella mi ha parlato di Melancholia di Lars Von Trier: non oso pensare a quale effetto farebbe su di me).
Perciò grazie a Sebastiano Nata e al suo ritratto asciutto ma romantico della vita e di quel che conta davvero. Per me, di sicuro.

giovedì 16 maggio 2013

I buchi del cuore e le lezioni d'inglese

Questa settimana ho fatto ben due lezioni di conversazione in inglese. Anzi, tre: il merito di quest'ultima è di un mio amico in carne e ossa, che molto gentilmente si è offerto di aiutarmi nel mio donchisciottesco tentativo di imparare una buona volta la lingua anglosassone. Impegni permettendo, credo che potrà darmi davvero una grossa mano.
Dal canto mio, spero con tutto il cuore di riuscire a non perdere la motivazione: certo, l'investimento economico compiuto per frequentare la mia scuola d'inglese online non è indifferente, per cui qualcosa dovrò cavarcela per forza. E tuttavia, non mi riferisco solo all'obiettivo esterofilo. Sto parlando più in generale della mia vera o presunta volontà di potenza. Fa molto Nietszche questo passaggio, eh? Fregnacce a parte, gli avvenimenti di questi ultimi mesi (e ahimè anche giorni) confermano sempre di più le fosche previsioni sul futuro, ahimè neanche tanto lontano. E non si tratta di pessimismo o di lagnosità sudista, è proprio che non vedo grossi sbocchi se non "l'auto-tutto" per gente come me e come i miei più stretti legami, alle prese con presunti lavori autonomi a rischio accertamento fiscale per i troppo magri (ma ahimè veri) guadagni annuali accumulati.
E così, tra un accudimento e l'altro (di quattrozampe e persone), tra una lezione d'inglese e un'altra di ginnastica e quelle successive, cerco di non perdere la barra e di darmi un qualche orientamento.
Stamattina ho spedito la mia domanda per un concorso pubblico per soli titoli: voglio proprio vedere se mi chiameranno almeno per il colloquio. Non mancherò di riferirne qui, in tutti i modi. Scritte queste inani righe, poi, mi dedicherò a buttare giù nuove idee per un lavoro creativo. Più vago di così si muore, no? Eppure. Eppure sono proprio i momenti di ricerca e di spremitura delle meningi che mi danno la maggiore soddisfazione. Come sarebbe bello se a ogni scatto creativo (valido, naturalmente, il che significa uno ogni tanto. Le idee buone sono per forza rare) ne corrispondesse uno del mio conto in banca, ovviamente in entrata. Non venitemi a dire che l'arte (?) non paga. In certi casi paga eccome. E in ogni caso io non sono un'artista, perciò non piangete per me come la fidanzata di Moretti in Ecce Bombo.
Abbiate pazienza, insomma. E' solo che oggi è una giornata strana e il mio cuore aveva bisogno di riempire (o forse sarebbe più esatto dire svuotare) di parole i buchi emotivi diversamente troppo grandi. Ieri precisavo con un caro amico che da oggi è un po' più solo che non sono depressa. No, non lo sono affatto. E' solo che non ho più vent'anni (ma neanche trenta. Accidenti alla canzone di un gruppo anni Novanta che ascoltavo in anni che davvero spero di non vivere mai più: parlo dei Prozac +) e certi sogni, a questo punto, non si realizzeranno mai più. E' sicuro che è così, bisogna dirselo con chiarezza. Nel tempo, insomma, il cuore si riempie di buchi sempre nuovi, alcuni dei quali, purtroppo, non si potranno più ricucire, un po' come i calzini troppo lisi.
Perciò, sì, potete raccontarmi i vostri guai (come qualcuno in effetti fa davvero), li ascolterò gratis, con il mio cuore pieno di buchi e il sorriso sempre accennato, forse un po' triste, ma rassicurante.
Sto parafrasando e reintepretando una bellissima canzone di Mark Knopfler, Heart full of holes, da me nuovamente saccheggiato per la lezione online. Non ricordo a memoria il testo, ma sono sicura che la musica che ne accompagna le parole vi faranno capire molto meglio di quanto riesca a fare io quanta poesia c'è, in noi e nella nostra vita. Anche grazie a questi enormi buchi rammendabili mai più.


venerdì 14 dicembre 2012

Mossi ma vivi


In questi giorni mi sento mossa come il bellissimo Nino nella foto qui sopra.
Al contempo, mi torna in mente la conversazione che ho avuto con la compagna di mio cugino Francesco un paio di settimane fa.
Se avessi la possibilità di dimostrarlo, in questo momento potrei svolgere anche il lavoro più gravoso, anche il più stressante. Certo, voi direte, non avendone uno concreto per le mani, è facile parlare così.
E però ve lo assicuro: di botto non ho più paura di nulla, se non degli stop imposti dal caso, che però niente hanno a che fare con quanto già di per sé noi umani (noi creature viventi in genere) potremmo realizzare con le nostre sole forze.
Sì, sono proprio come Nino, che salta, mangia, dorme e gioca per istinto, senza bisogno di farsi inutili domande.
La vita è breve. Ora lo so con più chiarezza di prima.
Mi secca molto essermi per certi versi ritirata dall'azione troppo presto, ma ormai è fatta. Recriminare non serve. Anzi, è proprio dannoso.
Non potendolo provare nel mio settore lavorativo, allora, non mi resta che darmi da fare in tutto il resto.
E lo farò. Seguendo il mio istinto e il mio cuore.
Non c'è altro che conta.

sabato 1 dicembre 2012

Fuori dal limbo, a tutti i costi

"In questo momento devo proprio dirlo: meno male che non ho figli, così posso stare qualche giorno in più per monitorare la situazione".
"Al di là dei figli, il mio problema è il lavoro: devo capire se posso prendermi dei giorni in maniera da poter partire più agevolmente".
La conversazione sopra riportata si è svolta stamattina: la prima a parlare ero io. La seconda mia sorella, dipendente con contratto a tempo indeterminato. Una delle poche privilegiate in questo Paese, anche se lei si è semplicemente limitata a brillare negli studi e a vincere un concorso. Oggi non è più così e lo sappiamo tutti. Il mio caso è atipico in tutti i sensi, ma resta pur sempre il fatto che, allo stato attuale, tra me e un neolaureato senza futuro non c'è alcuna differenza.
Le mie parole sopra riportate, del resto, sono illuminanti di come la pensa un disoccupato/semi occupato come me: nel considerare la facilità (relativa) con la quale posso restarmene al capezzale (metaforicamente parlando) dei miei genitori, non ho proprio citato i problemi di lavoro. Perché, di fatto, ora come ora e chissà per quanto tempo, non ne ho. Perciò ho parlato direttamente dell'assenza dei figli, il vero impegno per qualsiasi famiglia che debba occuparsi anche di parenti malati.
Ai gatti pensa mio marito, a sua volta, sfaccendatissimamente impegnato dietro alla mamma che si è rotta il polso destro proprio in questo periodo così faticoso.
E così passa le sue giornate a fare da badante alla madre, impedita in quasi tutte le attività quotidiane. Anche nel suo caso, se avesse avuto un lavoro (ai figli, in genere, pensa innanzitutto la mamma, soprattutto quando sono molto piccoli), di certo non avrebbe potuto essere così presente. Anch'io, come lui, peraltro, mi sono vista allungare un po' di denaro per far fronte alle spese impreviste. Alla fine lo stipendio ce lo vediamo passare proprio da chi ci ha dato alla luce. E' davvero paradossale. So benissimo che le nostre genitrici l'avrebbero fatto anche se fossimo stati due manager in carriera, però è tutto il contesto che ti fa sentire veramente senz'arte e né parte, a cominciare dai medici che ci chiedono che lavoro facciamo e se possiamo fruire della legge 104.
Nel mio caso, ho lasciato che parlasse mia sorella: lei, per fortuna, poteva mostrare di essere qualcuno per la società. Per un tipo di società in disarmo, destinata - salvo svolte impresse dai figli dei migranti, gli unici che potranno un domani far ripartire l'Italia - alla decadenza.
La burocrazia, però, è l'ultima ad accorgersi dei cambiamenti, seconda solo alla politica e alla classe dirigente tutta, che continua a ragionare in termini di lavoro dipendente, salariato e sicuro, benché di triadi così se ne vedano sempre meno.
E in ogni caso, lunedì dovrò ripartire e sistemare un po' di cosette lasciate in sospeso, una anche di tipo simil-lavorativo.
Sperando con tutto il cuore che si possa un giorno vedere la luce in fondo al tunnel (la metafora è consunta, ma pazienza, non mi viene niente di meglio a quest'ora e con la stanchezza che mi fa chiudere gli occhi), so che l'anno prossimo sarà tutto dedicato a sbloccarci da questo faticoso limbo.
Non c'è altra scelta, ma sono disposta a ogni svolta, anche la più amara, pur di non avvertire più questo senso, veramente mortificante, di inutilità.
Lo devo a me stessa e alle persone che mi hanno cresciuto.
Alla mia mamma l'abbraccio più forte. Dormi bene, ci vediamo domani. 

venerdì 19 ottobre 2012

Via dall'Italia prima della disfatta. E Why Aye Man



"Che lavoro fa"? I medici specialisti lo chiedono spesso per appurare se ci possa essere l'usura professionale tra le cause dei disturbi lamentati dal paziente.
A giudicare dai dati presentati oggi da non mi ricordo più quale organismo (poi lo controllo: adesso non c'ho voglia. Comunque l'hanno detto al tg3 del pomeriggio), alle donne italiane farebbero meglio a chiedere: "che lavoro non fa?", considerando proprio il non-lavoro tra le possibili fonti di stress organico.
In tutti i modi, a volte capita che qualcuna che un lavoretto l'ha anche trovato, preferisca tirarsene via prima, per l'appunto, di rovinarsi la salute.
Lo raccontava ieri mattina in coda per le analisi una giovane donna dal viso pieno a un conoscente anziano, amico forse dei suoi genitori, che esibiva uno sguardo molto malinconico.
"Dal call center? Me ne sono andata. Ma per carità. Adesso lavora solo mio marito, è caporeparto alla frutta". Subito dopo ha precisato che neanche il lavoro del coniuge è sicuro, ma meglio di niente. E comunque adesso a lei sarebbe toccato un compito non meno impegnativo: diventare mamma, visto che si era appena resa conto di essere in dolce attesa. Mentalmente le ho augurato buona fortuna. Sperando, naturalmente, che prima o poi possa tornare anche lavorare, perché di certo una mamma casalinga non è un buon esempio, soprattutto se dovesse mettere al mondo una bambina, che un domani finirà per convincersi che anche se sta a casa fa niente.
Tornando alle file dai medici, comunque, tolti quelli che parlano dei propri e altrui acciacchi, in generale ci si sofferma spesso sul lavoro, sul proprio svolto in anni passati, come nel caso di un vecchietto di bassa statura (era poco più alto di me, che come si sa non sono un vatusso), occhialini su un paio d'occhi buoni buoni. "In Germania c'è tutto un altro sistema", mi svelava a un certo punto di un'attesa particolarmente lunga, "lì non vai tu a cercare il lavoro, ma succede il contrario: se ti trovano per strada, ti fermano e ti chiedono se vuoi lavorare da qualche parte. Però se non accetti e ti ritrovano in strada una seconda volta, ti rispediscono direttamente a casa tua".
Dovevano essere ricordi di gioventù, suoi o di qualche conoscente (non ho effettivamente capito se era un ex emigrante, so solo che per un lungo periodo ha adoperato un muletto con una leva assai resistente, un incarico molto delicato che richiedeva una preparazione ad hoc. Mi domando se oggi sia lo stesso, ma immagino di sì almeno nelle grandi aziende. Comunque me lo auguro).
Di fatto lui la sua pensione se l'è guadagnata, cosa che, come ha considerato a un certo punto del suo monologo durante il quale mi sono limitata ad annuire di approvazione, non accade ai giovani. Con il lavoro così spezzettato e insicuro, mi ha spiegato con linguaggio semplice, è difficile pure comprarsi da mangiare. E se non si mangia come si fa?
Già, come si fa?
Si tenta la sorte, sperando che la fortuna prima o poi arrida, cambiando Paese, come facevano non solo gli italiani, ma anche inglesi, scozzesi e irlandesi non so bene in quale periodo storico, nella canzone sopra linkata di Mark Knopfler. A citarmela, è stato ovviamente Sfaccendato, che conosce a menadito tutto lo straordinario repertorio di un musicista di rara classe come l'ex leader dei Dire Straits. Ma la canzone è molto nota anche a me, visto il grandissimo numero di volte in cui l'ho ascoltata.
Nel testo si parla per l'appunto di Germania e di un gruppo di immigrati che dopo il lavoro immerso nel rumore, nella polvere e nel sudore, passa la serata come può, se possibile in compagnia della propria "pretty fraulein".
In pochi versi, il grande Mark affresca la vita dell'immigrato per antonomasia, uguale in tutti i tempi e origini nazionali. Meglio di un reportage, meglio di un'indagine storico-sociale.
Non so se ancora oggi in Germania ti vengano a cercare sulla strada (qualcosa mi dice che non sia più così), ma gli aneddoti raccolti in questi giorni sembrano elargire l'ennesimo messaggio subliminale a intraprendere la via dell'espatrio prima che sia troppo tardi.
Non parlo tanto per noi Sfaccendati, che abbiamo già una certa età e vari impedimenti; penso piuttosto ai giovani citati dal gentile vecchietto e ai ventenni nominati da mio padre in auto giusto ieri. Chi non ha famiglie, figli (o gatti: non si adattano mica così facilmente ai cambiamenti le simpatiche creature) o vincoli d'altra natura fa bene a mollare l'Italia al suo destino.
E pazienza se sarò annoverata anch'io tra i piagnoni tricolore, però, francamente, finché non vedrò uno straccio di segnale di rivalsa morale (ma ci accorgiamo di quello che sta succedendo in Grecia?), finché avremo casi Fiorito-Maruccio-Trota-etc etc, nessuno mi toglierà dalla mente una visione più che mai fosca della terra che mi ha dato i natali.
Vi ho depresso? Ascoltate il brano di Mark e vi tornerà l'energia.
Why Aye Man, amici.

mercoledì 10 ottobre 2012

AAA cercasi lavoro... usando l'inserzione di un altro

Immaginate di stare sfogliando la settimana enigmistica.
A un certo punto vi si parerà davanti il solito gioco delle differenze, stavolta però leggermente diverso.
Ai solutori si chiederà di scovare le differenze tra i due seguenti testi:

PRIMO TESTO
43enne dipl. rag.  esperienza quinquennale ausiliario socio assistenziale si offre per varie mansioni (assistenza di base, pulizie domestiche, spesa a domicilio, accompagno, piccoli lavori casalinghi,  disbrigo pratiche burocratiche, segretariato, servizio dog-cat sitter, cura del tempo libero, ecc.) . Non è servizio sostitutivo di badante, semmai un valido aiuto per piccole ma indispensabili attività quotidiane rivolto a soggetti in temporanea o duratura difficoltà.
Max serietà offerta e richiesta. Paolo


SECONDO TESTO
48enne diploma rag. esperienza ventennale, si offre per varie mansioni (assistenza di base, pulizie domestiche, spesa a domicilio, accompagno, piccoli lavori casalinghi, disbrigo pratiche burocratiche, segretariato, servizio dog-cat sitter, cura del tempo libero, ecc.) in zona fermano-maceratese disponibile a piccoli trasferimenti. Non è servizio sostitutivo di badante, semmai un valido aiuto per piccole ma indispensabili attività. Max serietà offerta e richiesta. Stefano

Capita anche questo agli Sfaccendati: di inventarsi un annuncio e di vederselo riprodotto pari pari (tolte le debite differenze che di certo avrete notato) sul medesimo sito di annunci economici.
Come commentare?
Rivendicare il copyright è non solo ridicolo, ma anche inutile.
Trovo tuttavia davvero triste che ci si debba scippare pure la patente di sfigato nonché attempato ricercatore di lavoro.
A questo punto non so se augurare al 48 enne ragioniere con esperienza ventennale di avere più fortuna dell'autore dell'annuncio da lui copiato-incollato (ebbene sì, copiato-incollato) di soli cinque anni più giovane.
Se mai (quindi mai) dovesse leggere questo mio post, lo pregherei di farmi sapere se è riuscito almeno lui a cavare un ragno dal buco. Lo rassicuro: non c'è pericolo che Sfaccendato man gli faccia concorrenza. Quest'ultimo, infatti, ha ricevuto un certo numero di visite all'inserzione numero uno, pubblicata ormai più di un mese fa (mentre quella di Stefano è fresca fresca... di copiatura), ma mai nessuno l'ha contattato.
Oltretutto Sfaccendato ha provato a riproporlo anche da altre parti d'Italia, caso mai ci fossero più chance da qualche altra parte.
Per ora tutto tace.  E qualcosa mi induce al pessimismo.
Di recente, però, mi si è fatto notare che essere troppo realisti (leggi pessimisti, per alcuni) finisce per bloccare quei meccanismi positivi che a volte riescono a sbloccare pure le situazioni più pantanose.
In nome di questo principio, che in fondo in fondo condivido (è così facile illudersi), non aggiungo ulteriori lamentazioni.
Mi limito giusto a una chiosa finale: come pensiamo di risollevarlo questo Paese se continuerà a ingrossarsi la schiera dei quarantenni a spasso?
Ne ho già parlato, ma ribadirlo non fa male: la guerra generazionale è più che mai aperta, non solo verso i vecchi che non se ne vogliono andare, ma purtroppo anche verso i giovani assunti (quando capita) non perché più dinamici o più hi-tech, ma esclusivamente perché più economici.
Tutti gli altri (cinquantenni compresi: il dramma per loro è forse anche maggiore) possono scordarsi una seconda opportunità.
E però ogni tanto qualche segnale in controtendenza arriva: finalmente c'è qualcuno che ha capito che, anziché ricandidarsi, è meglio "occuparsi della formazione dei giovani" (non oso pensare come).
Sull'altro fronte, invece, c'è chi dice che si sente ringalluzzito e rimotivato a non schiodare pur di contrastare l'ascesa del rottamatore fiorentino.
Pur non avendo particolari simpatie per Matteo Renzi, ammetto che alcune sue uscite sulle differenze d'età tra lui e il grosso dei politici tuttora in auge mi hanno fatto molto ridere. Sottolineo però un fatto: Renzi non è giovane, bensì è un adulto con un ruolo pubblico di un certo rilievo.
Del resto, non scordiamocelo, siamo in Italia, dove non si è mai abbastanza vecchi per avere ruoli di comando (a patto di non essere stati imbucati da qualcuno), ma neanche abbastanza giovani per poter ricominciare daccapo. Con umiltà, sì, ma anche con dignità.
Sì, dò il mio in bocca al lupo a Stefano e a tutti gli Sfaccendati d'Italia.
Però, per piacere, usate un po' più di fantasia, una qualità che, magari, vi aiuterà anche a ritrovare una strada adatta al vostro sacrosanto desiderio di riscatto.

mercoledì 1 agosto 2012

Dedicato ai migranti italiani e a quelli che, a fatica, restano ancora qui



Chissà se Paolo è andato a lavorare in Svizzera, alla fine. E chissà se a Priscilla rinnoveranno lo stage in una prestigiosa agenzia del centro di Milano.
Salita sul treno per la grande metropoli del Nord, non avevo granché voglia di intrecciare conversazioni, meno che mai sul lavoro. Lì per lì, dunque, scoprire che il mio posto era giusto affianco ai due giovani viaggiatori partiti varie ore prima di me da Foggia, non è che mi facesse proprio piacere.
Con ostinazione, mi sono ficcata nelle orecchie gli auricolari e ho ascoltato, forse Paolo Conte (è piuttosto probabile), ma può essere anche Mark Knopfler (e d'altra parte non cambio la playlist da secoli... beh, non è proprio vero, visto che da pochissimo ci ho aggiunto le dieci puntate di "Alle otto della sera" dedicate, indovinate un po'? Ma ovviamente al Maestro!).
Fatto sta che dopo un po' non ne potevo più di assordarmi e poi, comunque, i due ragazzi non sembravano affatto antipatici. E infatti non mi sbagliavo.
Priscilla, 27 anni circa, è laureata in Sociologia e dopo vario peregrinare tra Roma e Milano, ha scelto la seconda nella speranza di avere qualche sbocco in più. Per fortuna, la città le piace, più della capitale sicuramente, anche se avrebbe preferito restare all'università a fare il dottorato. Ascoltandola parlare della sua interessantissima (anche se un pizzico inquietante) tesi di laurea su una catena di hotel specializzata in funerali con annessi e connessi che sta facendo grande business a Milano e dintorni, mi rendevo sempre più conto di avere vicino una persona fuori dal comune. In un certo senso, mi ricordava me gli ultimi anni dell'università, prima della "grossa crisi", con le stesse ambizioni fondate su impegno e (perché non dirlo) intelligenza, ma con qualche disillusione in più sulle speranze di vederle realizzate.
Paolo, invece, era leggermente più grande di lei e di sicuro ancora meno fiducioso. Studente lavoratore, come la sua giovane conterranea era un po' pentito di aver scelto una facoltà debole, di tipo umanistico (come li capisco!), ma fino a poco tempo prima era riuscito comunque a restare nella sua terra, convinto della necessità di lavorare a casa propria per non sottrarre ulteriori risorse a una zona storicamente già ferita da oceaniche emigrazioni. Finché un giorno, chissà perché (è ironico) è cominciato il mobbing che alla fine l'ha spinto a rassegnare le dimissioni. Da un contratto un tantino anomalo. E sì, perché Paolo si è a un certo punto accorto che, oltre a essere pagato in ritardo, non c'era traccia di contributi versati e altri piccoli optional che tanto fanno la felicità dei lavoratori dipendenti (gli autonomi, invece, ci hanno rinunciato ormai da un pezzo). Avendone chiesto spiegazione, il giovane foggiano, piccole esperienze di cooperativa alle spalle e anni di praticantato nel negozio di famiglia, si è condannato all'uscio. E all'emigrazione verso il Nord, dove, per sua fortuna, vive una sorella. Da lei fa base ogni volta che lo chiamano per un colloquio. Fino a quel viaggio, però, non ne aveva cavato granché. Solo una sfilza di colloqui per mansioni commerciali, spesso a provvigione, nessuna assunzione probabile. Il giorno dopo il viaggio in treno in cui l'ho incontrato, ne avrebbe avuto un altro che non lo entusiasmava assai, però, come diceva a Priscilla, ossessionandola forse un po', a trent'anni non sei più un ragazzo e devi trovare uno sbocco. Uno qualsiasi. Per forza. Tanto, al limite, sarebbe potuto restare per qualche tempo dalla sorella e poi, un giorno, chissà. Poco prima di arrivare a Milano, gli squilla il cellulare. Capisco che ha bisogno di una penna per appuntarsi qualcosa. Gliela allungo, un po' trepidante anch'io, come pure Priscilla con la quale scambio un'ansiosa occhiata. Trecento fiorini svizzeri a settimana? Sinceramente non ricordo più la cifra ripetuta ad alta voce davanti alle facce sorprese delle sue dirimpettaie, la giovane e la vecchia (per scherzo, a un certo punto, Paolo mi ha chiesto se doveva darmi del lei. Ho finto di mandarlo a quel paese).
Chiude la conversazione e alza su di noi uno sguardo ridente, di puro stupore. L'hanno chiamato dalla Svizzera per fissargli un colloquio per il giorno successivo a quello milanese. Gli hanno già parlato di guadagno, di contratto, l'importante è che sia un frontaliero. Paolo, da quel che ho capito, lo è, quindi chissà se adesso è lì a rifarsi di tutte le frustrazioni accumulate in un Paese che, a essere bello è bello, ma è troppo crudele con troppi figli suoi.
Con questo mi riallaccio, esplicitamente, al piccolo, affettuoso dibattito avuto con mia madre su Facebook a proposito dell'idea non proprio positiva che ho della terra, amatissima, che mi ha visto nascere.
La crisi è anche in Spagna, anche in Germania, dappertutto. Anche all'estero licenziano e mettono alla porta molta gente. Però basta varcare il confine settentrionale della Penisola per rendersi conto delle differenze.
E basta parlare con chi sta vivendo situazioni di stallo analoghe a ragazzi come Paolo e Priscilla, ma anche a persone più grandi di loro come noi coniugi Sfaccendati e molti altri come noi: in Germania, ad esempio, si assume ancora senza fare questioni di età (dietro, naturalmente, un po' di formazione) e chi perde il lavoro ha qualche aiuto dallo Stato. Da noi il Welfare lo fanno i nonni, i genitori nel caso dei due foggiani trentenni. E questo non è giusto. No che non lo è. Priscilla per il suo stage prende 250 euro al mese: alla sua età, molti dei sessantenni e settantenni di oggi erano padri e madri da tempo. E a questo proposito, solo da noi si diventa genitori sempre più tardi: nel nord Europa nascono più figli semplicemente perché li si mettono al mondo prima, come imporrebbe l'orologio biologico. Poi, certo, ci sono ragioni individuali e sociali che tengono molte donne italiane lontane il più a lungo possibile dalla maternità: Priscilla, per esempio, magari adesso non avrebbe voglia di fare la mamma, presa com'è dal suo legittimo desiderio di affermazione professionale, ma quando ho accennato alle difficoltà delle mie amiche quarantenni con figli piccoli, spaventate dall'eccesso di smog che assedia grandi e piccini, e del loro desiderio, proprio per questa ragione, di fuggire dalle metropoli, ho colto un lampo di malinconia nei suoi grandi occhi chiari.
In Germania le piste ciclabili abbondano e l'aria è spesso assai più respirabile, nonostante il clima ostile.
Insomma, è una questione di scelte, purtroppo non solo personali.
Siamo condizionati, nel bene e nel male, dal luogo in cui nasciamo. Paolo ama la sua terra, e anche Priscilla, lo si intuiva da come le si illuminava la faccia parlando di casa sua. Però, da noi, chi emigra non può più tornare indietro, e non solo perché ha trovato (speriamo per loro e per tutti gli altri che stanno chiudendo la valigia in questo momento) una collocazione professionale migliore, ma anche perché non si riconoscerà più, almeno non del tutto, in quelli che sono rimasti in patria, che sia un piccolo paese del sud o lo Stivale tutto intero.
E sapete perché non vi si riconoscerà più? Perché, tornando indietro, ritroverà le medesime, stanche anomalie di un Paese che non vuole crescere, non quanto a Pil, bensì a benessere collettivo, in una parola a civiltà. Inevitabile sarà la rabbia (i primi tempi) e la malinconia (andando avanti negli anni) che li risospingerà verso la patria adottiva, nel Nord (Europa) oppure verso l'Africa, per quelli di loro che avranno compiuto la scelta più ardita convertendosi, magari, alla ristorazione italiana dopo una vita sui libri, o ancora verso la cosiddetta Cindia, per quelli dotati di spirito più pratico.
Temo, ahimè, che non ci sia scelta. Non molta, comunque.
E tuttavia, nonostante la mia età non più verde, io sono ancora allo stadio della rabbia, un sentimento che mi fa tutt'oggi dire che non siamo degni, come popolo, del nostro grande passato. Lo dimostra anche la vicenda di Milano e della riapertura della zona C alle auto per la vittoria di un'azienda privata di posteggio, raccontata dall'Amaca di Michele Serra qualche giorno fa e che ha scatenato il dibattito (ripeto, affettuoso) tra mia madre e me.
Ne sono convinta, cara mamma: persino Gesù, su questa vicenda meneghina e in generale sul futuro negato a schiere di giovani italiani, avrebbe qualcosa da ridire. Forse, chissà, andrebbe dai potenti anziani che ci hanno reso schiavi e che non vogliono proprio saperne di schiodare e li scaccerebbe via come i mercanti dal tempio. Sì, forse interverrebbe, non foss'altro perché anche lui è stato vittima della gerontocrazia. Solo che adesso lo crocifiggerebbero ancora prima, visto che sarebbe fuori tempo massimo per il contratto di formazione (oggi detto di apprendistato) di ben quattro anni.
Quest'ultima, naturalmente, è una piccola provocazione, ma a chi ha solo la voce, la tastiera e un po' di cultura non resta che usarle come può. Soltanto così continuerà a resistere e a sognare la riscossa, almeno morale, della nostra amata-odiata Italia. Anche se non sembra, insomma, io ci credo ancora.
E voi?

lunedì 25 giugno 2012

Il lavoro langue, la scrittura no: intervista ai “Lavoricidi” marchigiani


Lì per lì non ci fai caso, ma da un certo punto di Lavoricidi in poi diventa chiaro: tra i quindici racconti contenuti nel libro edito da ComunicationProject c'è un filo conduttore. In carne e ossa, anche se, molto probabilmente, sotto pseudonimo. Si tratta nientepopodimeno che di Alfonso (o Lucio o Filippo o quel che è) Maria Marzi, il raccomandato figlio di papà per antonomasia che riesce a piazzarsi sempre, e bene, al posto di almeno uno dei personaggi raffigurati lungo le circa 170 pagine che compongono il volume scritto dallo ZaratanClan, un collettivo di autori marchigiani genericamente giovani. Alcuni di loro, in effetti, si possono definire tali anche ai fini fiscali. Altri, invece, lo sono di certo nella passione che ci mettono nel narrare le assurdità di un mercato del lavoro che li risbatte ai margini senza tanti perché e neanche un grazie e nell'orgoglio con il quale si scuotono di dosso la patente di sfigato o, peggio, di bamboccione, usando armi possibili solo a gente dotata di cervello e istruzione (più che qualificata): l'ironia.
A loro ho già dedicato un post a metà lettura, in preda a una crisi di empatia (e di nervi) per ogni singola parola trapassatami sotto la pelle fino a quel momento. Come mi ero ripromessa già allora, però, Lavoricidi meritava qualcosa di più che il semplice commento accorato di una malcapitata giornalista freelance con la luna storta. Ed è così che li ho contattati e li ho intervistati. Le risposte sono tutte di Jonathan Arpetti, uno dei curatori dell'intero progetto. Fa eccezione la risposta sulla scuola, che è invece di Laura Crucianelli, brillante insegnante precaria, che è riuscita a dare un nome (anzi: più d'uno, con tanto di maiuscola iniziale) all'ansia... buona lettura.

Dopo gli affetti (traballanti), il lavoro (in grosso affanno): chi di voi ha avuto l'idea del secondo romanzo collettivo?
Francesca Riccioni, curatrice di Lavoricidi con me e Paolo Nanni, fondatori dello ZaratanClan. Insieme, abbiamo portato avanti il progetto, curando ogni aspetto, dalla scelta degli spunti veri da rendere narrativa, al montaggio dei brani, fino ai crossover, ossia i personaggi legati a più storie.

Ecco perché Alfonso Maria Marzi ricorre più volte insieme con altri elementi come l'assurda notizia di cronaca del suicida disoccupato vestito da ufficiale nazista... come avete fatto però a dividervi i temi, visto che i racconti non sono tutti autobiografici?
Dal punto di vista pratico, la formula più usata è stata interagire attraverso social network e skype. Ogni autore ha messo sul piatto diverse proposte, che sono poi state selezionate e catalogate. Alcuni, vivendoli, hanno scritto dei propri disagi; per il resto, noi curatori abbiamo dato la massima libertà di scelta tra tutto il materiale pervenuto.

Come sta andando la promozione? So che siete stati al Salone del Libro di Torino: che impatto ha avuto il vostro libro su un pubblico non marchigiano?
La promozione sta andando direi in modo spedito: ognuno dei quindici autori agisce sul proprio territorio di residenza organizzando eventi e presentazioni, mentre per quanto riguarda la condivisione on line abbiamo creato un sito/blog, poi una pagina facebook che quotidianamente aggiorniamo con foto, post sull’argomento lavoro e non solo, e recensioni. Per quanto riguarda la presentazione al salone del libro di Torino, siamo stati ospiti nello stand della regione Marche e il pubblico, non solo marchigiano, ha risposto molto bene.

Quindi anche qui nelle Marche state suscitando qualche reazione?
Sì: molti giornalisti e blogger ci contattano per interviste e recensioni, dal momento che il tema che abbiamo affrontato, nel contesto attuale di profonda crisi economica in cui viviamo, si presta per approfondimenti e riflessioni.

Tu personalmente avevi partecipato anche al primo progetto di romanzo collettivo?
Sì, sempre con Paolo Nanni ho ideato e curato Affetti collaterali, uscito per la Pendragon quasi in contemporanea a Lavoricidi.

La qualità della scrittura è alta: qualcuno di voi si è occupato dell'editing?
In prima battuta ce ne siamo occupati io e Paolo, poi il testo è stato revisionato totalmente da Marta Tadolti, bravissima editor e redattrice della Comunication Project che ha pubblicato il volume.

Quanto vi è costato parlare del disastro sociale e psicologico che stanno vivendo due intere generazioni? Nel tuo racconto concludi che non vorrai mai più essere disturbato per cose simili. Immagino sia una provocazione, però non avresti tutti i torti...
Diciamo che ci è venuto abbastanza naturale. Con questo romanzo abbiamo cercato di dar voce a chi sta invischiato davvero in questo disastro sociale, ma non abbiamo voluto farne un testo di denuncia politica, o un saggio sulle problematiche del lavoro, bensì abbiamo voluto condividere delle storie vere (rese narrativa) nella speranza di scatenare dibattiti costruttivi.
Quello che scrivo nel mio racconto è naturalmente una provocazione… per cercare in qualche modo di sdrammatizzare. Se ci sarà di nuovo l’occasione, non mi tirerò certo indietro.

Buono a sapersi... Ho trovato particolarmente brillanti i racconti sulla scuola: a mio avviso, valgono molto di più di qualsiasi inchiesta giornalistica sul precariato che affligge (in verità non da adesso: in questo caso la crisi c'entra poco) schiere di insegnanti. Secondo voi, perché i media (nella maggior parte dei casi) non sanno fare altrettanto? Voglio dire: perché di solito, soprattutto in tv ma non solo, vanno per la maggiore solo i casi umani?
(risposta di Laura Crucianelli) In realtà un po' "caso umano" mi ci sono sempre sentita, salvo poi, con l'arrivo della crisi, scoprirmi all'improvviso la più fortunata tra i precari perché almeno, dipendendo dallo Stato, seppur a corrente alternata, ho più garanzie di chi lavora nel privato. La tv cerca di ricreare, secondo me, un certo grado di immedesimazione attraverso le lacrime. Io penso sia più produttivo, anche se più faticoso, usare l'arma dell'ironia e a volte del sarcasmo. Perché toccano non la pancia, che subito si affama di altri "dolori", ma la testa. Che eventualmente torna sopra alla questione, si pone domande, cerca, per quel che può, soluzioni.

Purtroppo non sono dotata di smartphone, quindi non ho potuto apprezzare anche i video: a chi è venuta l'idea multimediale? L'ho trovata davvero intelligente e molto contemporanea.
L’idea del QRcode è di Carmelita Tesone, anche lei membro dello ZaratanClan e autrice di un brano sia in Lavoricidi che in Affetti collaterali. In un romanzo, crediamo sia un’idea originale e i molti consensi a riguardo, ci stanno dando ragione.

Per una non-marchigiana come me che vive qui dal 2005 non è stato molto consolante rendersi conto una volta di più quanto si stia avvicinando la prossima emigrazione in Germania... il vostro lavoro è un esempio positivo del contrario: quanta forza state traendo l'uno dall'altro per restare nella vostra terra?
Per quanto mi riguarda non ho mai messo in cantiere un trasferimento in Germania e credo neanche i miei colleghi di scrittura. Vogliamo restare nella nostra terra e viverla nel miglior modo possibile. Quest’esperienza è stata utile, prima di tutto, per conoscerci e condividere le nostre esperienze… e poi se è vero che l’unione fa la forza…

Già: se il detto è vero, come spesso accade con le perle di saggezza popolare, resterò qui aspettando che “passi la nottata”. Perché dovrà passare, prima o poi.
Grazie allo Zaratan Clan e buona fortuna. A voi, a me e all'Italia intera.  

sabato 24 dicembre 2011

La dignità non va in ferie

Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese. Eppure, al lavoro dei campi e alla bellezza dello stare a contatto con l'aria, il vento, la pioggia e il fuoco aveva dedicato uno dei suoi libri più belli.
Oggi, probabilmente, sarebbe costretto a rivedere il suo pensiero. Non lavorare stanca molto di più.
Per questo, poi, si finisce per inventarsi dei simil-lavori o per buttarsi anima e corpo nel sostegno ai familiari anziani o malati.
Niente di male, intendiamoci. L'una e l'altra strada seguite dai senza paga sono forme di resistenza alla fine del lavoro salariato e dipendente.
L'estate scorsa ho letto ben due libri in proposito, ma qui non mi va di fare sfoggio di finta erudizione.
Piuttosto, volevo parlare delle ferie che ha preso la mia edicolante scontrosa, quella che quando mi vede comprarle un giornale, vorrebbe che sparissi in una frazione di secondo.
No, non ce l'ho fatta a cambiare edicola, come mi ero ripromessa qualche post fa. Semplicemente, ho lasciato passare qualche giorno prima di ritornare da lei che, incredibilmente, mi ha accolto con un sorriso.
Forse, non vedermi troppe volte di seguito le fa bene: magari capisce che sono una delle poche persone che legge (stupidamente) ancora i quotidiani e che, tutto sommato, guadagnare qualche spicciolo non è così malaccio.
Fatto sta che dopo quel sorriso è tornata al suo standard rugnoso. Fino all'altro ieri, quando l'ho incrociata mentre attraversava la piazza.
Questa volta, non solo mi ha sorriso, ma addirittura mi ha chiamato per nome!
Io, invece, andavo di fretta, infreddolita e incupita da un fastidioso contrattempo. La sua cordialità ritrovata mi ha disorientato. Com'era possibile? Qualche ora più tardi s'è svelato l'arcano.
L'edicolante è andata in ferie. Ebbene sì: ha chiuso i battenti fino all'1 gennaio dell'anno incipiente e chi s'è visto s'è visto.
Evidentemente, a lei, di stare ore e ore in quel bugigattolo freddo, con i pochi clienti che ancora si ostinano ad acquistare carta scritta, proprio non gliene va. Peggio ancora adesso, sotto le feste, con le "orde" di turisti e cittadini a spasso, tutti lì a costringerla a darle incalcolabili resti di monetine. Per carità, troppa fatica.
Idem ha fatto la gelateria (e del resto, chi è che compra il gelato d'inverno?) che ha preferito sprangare le serrande. 
Poco fa ha citofonato una giovane rilevatrice del censimento per farci la ramanzina. Ebbene sì, non abbiamo ancora compilato il modulo: i disoccupati et similia hanno un sacco di impegni, mica possono perdere tempo con la burocrazia?
Tra i due episodi c'è un nesso. Eccome se c'è.
Se ci fosse un mercato del lavoro serio e una politica (nel senso proprio del termine) altrettanto accorta, non sarebbe possibile chiudere i battenti in tempo di ferie o, viceversa, non si potrebbero costringere malcapitati ragazzini a lavorare giusto alla vigilia di Natale. Perché, ne sono sicura, nei giorni scorsi non ci ha cercato proprio nessuno.
Edicolante carissima, se qualcuno ti avesse tenuto aperta la rivendita in questo periodo, ti avrebbe fatto schifo? E tu, gelateria, che ne dici? 
Ugualmente, Comune e simili, perché assumere, a ridosso della festa più importante dell'anno, dei poveri cristi in cerca di reddito, spedendoli all'uscio di gente impegnata a fare cappelletti e pacchetti?
Intanto, lo spread sale e i risparmi vacillano, mettendo a rischio anche le speranze di quelli che non vogliono arrendersi. Lavorare stanca, non lavorare stressa e abbatte, ma ancora di più logora sentirsi senza prospettive.
In questa condizione oggi quanti saremo? Molti di più di quanto potessi immaginare, almeno dal piccolo sondaggio che ho potuto fare in questi giorni di numerosi scambi e incontri.
Al contempo, però, c'è ancora molta ricchezza e, diciamolo, diversi privilegi. Perciò, le voci di chi vorrebbe fare, con competenza, serietà e umiltà, restano flebili. 
Ho appena dato l'ok a un mio amico che ha intenzione di documentare come vivono i professionisti sciolti da contratto. Leggendo la sua richiesta, ho sentito come una scossa: diavolo, sono proprio come mi descrive lui, appartengo anch'io al gruppo di quelli "in perenne stato di precarietà e con scarse tutele sociali", una categoria che annovera "i lavoratori autonomi che operano nel campo della conoscenza come fotografi, architetti, grafici, sceneggiatori, programmatori, traduttori, copywriter, blogger, videomaker, musicisti", come scrive nella sua mail.
Quando ci sei dentro, finisci per dimenticartelo, fingendo, con te stesso, prima ancora che con gli altri, che tutto vada bene, che tutto sia sotto controllo.
Del resto, i dolori più forti, persino il travaglio, li dimentichiamo. Se non fosse così, cadremmo in un'angoscia, questa sì perenne, altro che reddito precario.
Perciò, ok, ci sto a fare la professionista senza (o quasi) tutele, ci sto a fare lavori non troppo qualificati; potendolo fare (ma sono troppo vecchia: dubito che mi avrebbero selezionata), sarei andata anch'io a bussare alle porte degli italiani alle prese con il capitone, però sogno un giorno in cui saremo chiamati a dare il nostro contributo con la dignità che meritiamo. E con la competenza che abbiamo accumulato anno per anno, giorno per giorno, con amore e dedizione per ogni passo in più realizzato. E non mi riferisco solo ai freelance come me, ma parlo anche a nome del tecnico delle bombole, della rilevatrice del censimento, dell'operaio tuttofare, e, sì, anche dell'edicolante a corto di motivazione. 
Dignità vuol dire anche equo compenso, giuste condizioni di lavoro e adeguati ammortizzatori nei momenti di crisi.
Dignità vuol dire rispetto vero per la vita di ciascuno.
Da quest'ultima non si dovrebbe mai andare in ferie.
Buon Natale, amici.