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lunedì 20 ottobre 2014

L'energia vitale di mia mamma e l'intelligenza di Cristina Donà


Mio padre non mi ha riconosciuta. L'ha guardata, piccina e scuretta tra le mie dita, e ha detto: "e chi è?". Ma come chi è?
A mia madre non sarebbe mai successo.
Ho ritrovato questa fotografia in un porta-gioie sepolto in fondo all'armadio, sotto i suoi vestiti che dovevo selezionare.
Confesso di aver provato più ansia che dolore: man mano che soppesavo fogge e modelli degli abiti più vecchi di mia mamma, mi sentivo quasi come un addetto qualunque del Mercatino, alla ricerca di eventuali falle nelle stoffe.

E poi c'è stato anche un momento divertente: accanto al porta-gioie bianco avorio, lavorato come un ciocco di legno intagliato, c'era una busta rossa rettangolare, di quelle che un tempo contenevano gli Lp. La prendo, convinta di trovarvi per l'appunto qualche vecchio 33 giri dei miei. E invece no.
Apro la scatola quadrata bassa, dalla copertina rigida, e chi ti rivedo? Juan Del Diablo, alias Palomo-qualcosa, l'attore della celebre soap opera Cuore Selvaggio, da mia madre amatissima. Raffigurato in pose vagamente sexy, una per ogni mese dell'anno 1995, il capelluto attore prematuramente scomparso mi ha strappato un sorriso.
La scatola conteneva anche un cd di sue canzoni, che il giorno dopo ho fatto partire dal computer di mio padre. Sentendo la musica, quest'ultimo è venuto a vedere: "che stai a fà"', mi ha chiesto.
Gliel'ho spiegato.
Ho buttato il calendario, ma non il cd.

Nel 1995 mia mamma aveva 53 anni: da come me la ricordo io, pensando almeno a una foto di tre anni prima che ho ritrovato per caso non rammento più dove negli ultimi mesi della sua vita, aveva pochissime rughe sul suo viso magro e allegro.
Forse proprio per questo motivo, chissà, ai tempi di Cuore Selvaggio sognava ancora l'amore romantico, forse pure la passione, nutrito anche da una grande attrazione per i paesaggi esotici e colorati.
Ricordo che quasi per giustificarsi della sua simpatia per Juan e per la storia con la sua amante fedifraga, mi diceva con foga che le piacevano moltissimo le ambientazioni: il Messico doveva apparirle una specie di Eden dei desideri perduti.
Forse proprio in quel periodo, ma non ne sono certa, le regalammo anche un dizionario di spagnolo o forse un manuale.
Molti anni dopo, dopo l'avvento del satellite, aveva preso l'abitudine di guardare le soap direttamente in spagnolo. Orgogliosa, mi diceva di aver imparato anche qualche "parolina".

Proprio gli ultimi mesi le ho dato in prestito il mio manuale di John Peter Sloan e insieme abbiamo fatto anche qualche esercizio.
Era malinconica, mia mamma, e anche un po' bambina.
E profondamente innamorata di noi figlie.

Rivedermi in quella foto-tessera così gelosamente conservata in fondo all'armadio, in mezzo a strani e disparati oggetti (la chiave di una camera, non so quale, un anello spezzato, dei bottoni spaiati), affianco al calendario di Palomo, mi ha intenerito profondamente.

Non ho pianto: le uniche lacrime che stavo cominciando a versare sono state ricacciate indietro dalla telefonata di mia zia. In quel momento stavo guardando un altro porta-gioie, quello sul comò nel quale io stessa ho depositato la sua fede e il suo orologio, accanto a un'altra foto-tessera, sempre vecchia, stavolta di mio padre, e bigiotteria varia.
Scavando, ho tirato fuori una strisciolina di carta di giornale su cui c'era scritto "Santurbano senza rivali". Ho sorriso pure lì. Non ho invece potuto trattenere la tristezza davanti all'aggiunta a pennarello di mia mamma sulla sua "intelligenza sopraffina". Scherzava spesso in questo modo con mio padre.
La telefonata è sopraggiunta proprio in quel momento, per cui niente pianto, giusto qualche lacrima sugli occhiali.

Stamattina ho riascoltato la mia telefonata con Simona Atzori, la ballerina dalle braccia rimaste in cielo, come aveva scritto Candido Cannavò, la quale ha dedicato il suo secondo libro, intitolato Dopo di te, alla mamma scomparsa quasi due anni fa.
Tra le cose intelligenti che mi ha detto c'è proprio la questione della durata del lutto, delle ondate che lo compongono, ciascuna con modalità e tempi differenti per ognuno di noi.
Oggi pomeriggio dovrò scriverla, ma prima di fissare sulla carta il suo percorso, verso cui provo grandissimo rispetto, ho sentito forte l'urgenza di ripassare di qua e fissare quel momento, uno dei tanti che stanno segnando il mio "dopo di te".

Ieri sera ho assistito al bellissimo concerto di Cristina Donà e Saverio Lanza nel teatro comunale di San Ginesio, e la mia mente è corsa a lei, che ha fatto in tempo a vedere la sintesi dello spettacolo di Massimo dedicato a Enzo Tortora, tenutosi la scorsa primavera nel medesimo luogo. Il suo entusiasmo commosso mi aveva, adesso posso ammetterlo, un po' sorpreso, conoscendo la sua scarsa propensione a lasciarsi andare alle emozioni più forti.

Eppure, nel suo intimo, amava eccome il coinvolgimento forte: altrimenti non avrebbe conservato per così tanti anni Juan Del Diablo. E anche me, in quella fotina bellissima, come possono essere solo i bambini.

Era dolce, mia mamma, oltre che molto aspra, quando voleva esserlo.
Era viva, era generosa, e attraversata da forti, fortissimi sentimenti.
Possedeva un'energia vitale che penso di aver ricevuto in eredità.
L'energia di cui parla Cristina nelle sue canzoni, quella che ci mette nell'interpretarle, donandosi (letteralmente) al pubblico con grande intelligenza.
Solo chi ha molto sale in zucca e forti ideali, voglio dire, è in grado di svelarsi nascondendosi.
Ed è forse questo il segreto del fascino vero, di quello che vince il tempo, molto più di una buona crema anti-rughe.

Ringrazio molto la vita per avermi dato una madre così e un gusto, posso dirlo, non facile da accontentare.
Ringrazio Cristina e il suo partner musicale per avermi mostrato concretamente che cosa significhi fare bene, molto bene, quello per cui si è nati.
Anche mia mamma è stata un'ottima maestra. Ed è una gran cosa essere sua figlia.


Ciao, mamma.

venerdì 10 ottobre 2014

I libri inutili e i cambi (necessari) di stagione


Il periodo è quello giusto: il cambio di stagione va onorato anche con una bella selezione tra i libri della nostra vita. Finora non ne avevo mai buttato neanche uno, ma ultimamente mi sono resa conto che non c'è niente di più sbagliato (almeno per me) della sacralità imposta.
Chi decide che un libro meriti di essere conservato più di un paio di scarpe o di una spugnetta abrasiva?
Non tutti i libri sono utili. Non tutto, in generale, è veramente indispensabile.

Tornando al tema, alcuni libri, in particolare, mi parlano di periodi morti e sepolti che non ho alcuna voglia di ricordare.

Fino a ieri pomeriggio avevo ancora il raccoglitore contenente il primo anno di numeri della Voce delle Marche. Adesso non ce l'ho più. L'ho lasciato sul bidone della carta, in piedi, aperto.
Chissà se i netturbini l'hanno sfogliato giusto un attimo prima di mandarlo al macero.

Nel novembre di dieci anni fa ho preso i miei primi contatti con Fermo. A inizio 2005 ho cominciato a lavorare nel settimanale diocesano, ormai mitizzato nella mia memoria.
I tre anni successivi sono stati tanto belli quanto dolorosi da rievocare. Ogni volta che ne parlo mi risale una rabbia che non ha più senso.

Perciò era ora che mi privassi di quel raccoglitore. Oltretutto, in cantina staziona ancora la collezione completa che avevo fatto da sola, da brava formichina, numero dopo numero.
Qualcosa mi dice che finirò per buttare anche quella.

Necessito di spazio. Di pulizia disco, quella che non faccio mai sul mio pc, sottoponendolo a sforzi eccessivi. Ogni tanto, infatti, il mio povero portatile va in tilt, esattamente come me.

Anche la casa dei miei genitori ha bisogno di un cambio di stagione. Non sarà facile liberare un po' d'armadio per mio padre, ma lo faccio per lui. E anche per mia mamma che approverebbe.

Quindi, tra poco, parto.
Compiendo un viaggio all'indietro che indietro non è.

martedì 16 settembre 2014

Le fotografie di mia madre e i tratti distintivi del suo carattere


Mia mamma mi ha vista così, credo due anni fa, a giugno. Deduco il periodo dell'anno dal colorito che ho normalmente, prima del breve periodo di rosolatura estiva. Il posto in cui è stata scattata la fotografia mi è molto familiare. E se è crudele passarci tutte le volte, andando e tornando dal mare, lo è stato ancora di più vederlo in immagine.

Ci abbiamo festeggiato così tante riunioni familiari, che dubito che riuscirò a rimetterci piede tanto presto. Anche mio padre sembra pensarla come me, ma d'altra parte poi il tempo passa e ammetto di essere stata contenta che abbia giocato a carte con gli amici della spiaggia, giusto due giorni fa, alla fine di questa estate così triste.

Sfogliando le fotografie scattate da mia madre, però, devo ammettere di aver più volte sorriso.
Abbiamo passato molti momenti felici, naturalmente felici, di quella normalità intima priva di aneddoti rilevanti se non per la stretta cerchia parentale, che tutti meriteremmo di avere.

Guardando i momenti del nostro passato comune resi inconsapevolmente immortali (salvo sbiadirsi negli anni o disperdersi nel cimitero dei byte), capisco ancora di più quanto io sia stata fortunata.
Mi sono rivista mentre giocavo a racchettoni con zio Gigi, mentre prendevo il sole con il quotidiano spaginato sulle ginocchia, con indosso i pigiami vecchi che continuiamo a metterci mia sorella ed io quando andiamo nella nostra casa da ragazze. E poi ho visto gli zii, i cugini, i nipotini prestarsi all'obiettivo con quel misto di ritrosia e vanità che mia mamma stuzzicava sempre quand'era in loro, in nostra, compagnia.

A volte ci fotografavamo vicendevolmente, in un gioco infantile che dava piacere a entrambe.
Ho scovato anche un suo ritratto in cui sfoggiava una parrucca verde fosforescente e sorrideva molto divertita. Ne ho una analoga di me, con un'espressione straordinariamente uguale, solo il colore della parrucca è diverso.

Da lei, credo, di aver preso un po' di spirito canzonatorio.
A fine mese mia zia farà dire una messa dal suo padre spirituale: gli ha passato un po' di parole chiave che vorrebbe che dicesse per ricordarla.
Io ne ho aggiunte due all'elenco per il resto veritiero composto dalla sorella: ironia e fierezza.

Per lo meno, io l'ho vista anche così.

Più passano i giorni e più mi convinco che non avrebbe mai potuto sopportare di diventare un vegetale. Noi avremmo voluto che restasse di più con noi, ma poi, come si dice dei figli, bisogna accettare che le persone che si amano di più prendano altre strade.

Non riesco ancora a provare granché conforto nel saperla sepolta accanto ai suoi genitori, ma al contempo, non posso fare a meno di percorrere il viale di cipressi soffermandomi ad ascoltare il gracchiare dei corvi e di qualche altro uccello a me sconosciuto.

Sei con me, sei con noi, in ogni momento.
Guidaci, se puoi, ancora un po'.
Ciao, mamma. Adesso sono io che vado a guidare: il cambiamento è cominciato dalla macchina nuova. Speriamo che ne arrivino anche altri.

So che tu ci credi. Cercherò di crederci anch'io.

domenica 7 settembre 2014

Più forte del fuoco

Sembra che Cristina Donà, la mia scoperta di questa strana estate (in verità, è merito della mia ex compagna di liceo, Simona, se l'ho conosciuta. L'ho già ringraziata una volta, lo faccio di nuovo) verrà da queste parti verso ottobre. Dovrebbe suonare/cantare al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata, lo stesso in cui si sono esibiti mio cognato e suo fratello, detto anche (quest'ultimo) il Bipede Paolo. Ora che ci penso, uno degli ultimi discorsi fatti con mia mamma è stato proprio sullo spettacolo dei DelPapa boys e sulla bellezza di quel piccolo teatro di provincia. E insomma, vorrei andarla a sentire anche per questa ragione. Spero di non dovermene pentire.

Anche perché le sto per affidare un ruolo davvero importante.
Dedico una delle canzoni del suo ultimo album alla mia mamma, a tre mesi dal nostro (chissà se solo figurato) addio.
Si chiama Più forte del fuoco (sotto nella versione unplugged) ed è stata a sua volta dedicata dall'artista lombarda "alla nostra stella Olivia". Chissà chi è. Perché anche Olivia "è" in ogni caso, dovunque sia.

"Più forte del fuoco c'è solo l'amore. Esiste da sempre". Proprio così. Lo conferma una che ha già provato le ortiche. Altro che se le ha provate. Sotto, effettivamente, può esserci la seta. Anche se faccio ancora fatica a riconoscerla. Sono sicura che ci riuscirò. Oggi più che mai.

Ciao, mamma. Grazie di tutto.



sabato 23 agosto 2014

Le foto di famiglia e l'amore che non muore


Per fortuna non era andata persa. Per fortuna ci passiamo quasi sempre le fotografie che scattiamo.
L'avevo cercata tanto nei giorni in cui volevamo scegliere l'immagine ricordo, ma niente, era sparita dall'hard-disc esterno. Sul pc, ovviamente, non c'era: quello precedente all'attuale ha smesso di funzionare di punto in bianco, senza preavviso.

E invece eccola qui. Bellissima. L'ho scattata io, ma non conta, in fondo. Anche se, naturalmente, sono orgogliosa di aver documentato moltissimi momenti felici.
Forse è diventata un poster, forse lo diventerà presto. In ogni caso, guardarla m'immalinconisce e insieme mi fa sorridere.

Quei due piccini oggi sono così diversi e uguali. Non sembra possibile che siano stati tanto minuscoli. Da poco ho provato l'esperienza di zia ospitante: era la prima volta che i nipoti passavano più giorni senza entrambi i genitori. E' stato impegnativo, certo, ma così coinvolgente da lasciare un vuoto disorientante.
Pure i gatti ne hanno risentito: il pomeriggio dopo la partenza erano distrutti. Felici anche, probabilmente, al contrario degli zii.

Ho finito da sola il numero delle Cipolline che hanno dimenticato: mi ero talmente compenetrata nella parte della voce narrante che non mi andava di lasciare la storia a metà. Ieri, però, il nipote piccolo mi ha intimato di riportargli il libro. Certo che lo farò, così almeno posso finire di leggerglielo.

Ho fatto, molto parzialmente, le veci della nonna.
Il piccino, quello che all'apparenza sembra già un ultrà, mi ha parlato delle letterine che quando era ancora più piccino gli scriveva la nonna. Gli ho risposto che le scriveva pure a me, anche adesso che sono più che grande. Mi è sembrato che si sia stupito, ma forse non lo era.
La nonna era speciale.

Non riesco ad aggiungere molte altre parole, se non l'ennesimo grazie per tutto l'amore che ho ricevuto e che malamente cerco di dare a mia volta. Non a tutti, ovvio, ma a una buona parte di persone sì. Sono fatta così, del resto, non posso sempre vergognarmi di come sono.

Aggiungo solo un ps per mia sorella: La gita di mezzanotte di Roddy Doyle è stato davvero un bel regalo. Per chi non lo conoscesse, parla di quattro generazioni di donne che si incontrano: una di loro è un fantasma. Sarebbe una storia per ragazzi, ma va benissimo anche per ex-ragazzi come me e come tutte quelle persone che non sanno (ancora o mai) spiegarsi perché si debba morire.

Grazie, Linda. Ti voglio bene. Anzi: LE voglio bene (lei sa perché scrivo così).
E adesso basta smancerie.
Tsk.

sabato 12 luglio 2014

Peperoni rossi dell'amore. Che non finisce


Vi giuro, non avrei mai pubblicato questa immagine solo un giorno fa.
L'ho scelta per il mio desktop perché la trovo così intima e bellissima.
Mia mamma è stata una bella donna, fuori e dentro.
Non lo dico per il legame che c'era tra noi, è un fatto oggettivo.

Ho scattato questa fotografia due anni fa. Ho appena controllato la data di acquisizione sul pc: era il 22 settembre 2012. Non sono ancora due anni. E lei, probabilmente, era già malata, ma non lo sapeva.

Lo avrebbe, lo avremmo, scoperto più o meno un mese dopo, subendo uno shock che può immaginare solo chi ha vissuto un'esperienza analoga.
Di questa brutta malattia si ammalano davvero in troppi e a tutte le età.
Lo diceva sempre lei, che ha affrontato la cura con una forza in fondo prevedibile, visto il suo carattere. La sala d'attesa lassù al quattordicesimo livello era sempre zeppa di gente, soprattutto il lunedì mattina. Io ci sono stata poche volte, esentata, per così dire, dal ruolo di accompagnatrice a favore di mia sorella Linda, più capace di cavarsela con le pastoie burocratiche e di altro genere dell'ospedale.

Arrivavo dopo, a casa, durante i giorni degli effetti collaterali. Sopportati bene, tutto sommato. Fino all'ultimo Natale, anzi, ci eravamo, forse, tutti illusi che sarebbe restata ancora a lungo con noi.
Ancora a maggio pensavamo che davvero sarebbero arrivati "i giorni migliori" che ci aveva prospettato il chirurgo milanese che abbiamo incontrato a Terni. Sono sicura che ne era convinto anche lui (diversamente sarebbe stato uno sconsiderato, come minimo), ma purtroppo non ha avuto ragione.

Non voglio ricostruire minuto per minuto i giorni ancora troppo recenti del distacco, ma ho comunque bisogno di fissare qualche pensiero. Perdonatemi se doveste trovarli troppo tristi.
In questi giorni teatini ho rivisto tre mie ex compagne di liceo, una al giorno, e sono stati tutti incontri molto belli. Molto veri.

Da ognuna di loro ho imparato qualcosa, durante i lontani anni della crescita, ma sono stata davvero contenta di scoprire di poter apprendere dell'altro ancora oggi. Siamo uguali ad allora e insieme diverse. Il carattere non si cambia, ne sono sempre stata convinta, ma la vita ce lo modella. Può peggiorare, certo, ma può anche manifestarsi in tutte le sue potenzialità, rivelando le magnifiche donne che sono diventate.

Mi spiace di non poter condividere con Susi, Simona e Valentina anche l'esperienza della maternità: so che buona parte del loro tempo è occupato dal pensiero dei figli che crescono. Però sono, per fortuna, una zia, quindi conosco, almeno superficialmente, che cosa si prova nel dover uscire da sé per diventare strumento di qualcuno che dipende da te.

Da figlia, inoltre, so quanto sia fondamentale sentirsi amati. Le ammiro, ecco, perché le vedo in grado di svolgere il loro ruolo, rimanendo comunque così simili a come erano quando sedevamo dietro ai banchi della nostra aula lunga e stretta.

Susi mi ha mandato delle foto di quegli anni. Le ricordavo tutte, tranne una di gruppo, a casa di un nostro compagno. Solo qualche tempo fa rivederle mi avrebbe messo angoscia. E invece adesso le ho trovate così lievi.

Ho dimenticato molto di quegli anni, ma so al contempo che la donna di oggi viene da lì, principalmente. Certo, poi, c'è stata l'università fuori casa e tutti gli altri anni di peregrinare in giro per l'Italia, ma quanto sia simile alla ragazza che sono stata me lo ha restituito, in questi giorni, il dialogo con le compagne di liceo.

Chissà che cosa ne avrebbe detto mia madre. Penso che ne sarebbe stata contenta: dentro di sé deve aver almeno un po' patito per la mia insofferenza verso la nostra piccola città. Ma chissà se è davvero così: probabilmente l'ho delusa per non essere riuscita a staccarmene davvero del tutto. Chi può dirlo.

In ogni caso, sapete perché mi piace tanto la foto che vedete in alto? Perché quei peperoni così rossi mi parlano di amore. Dell'amore che passava anche dai piatti che ci preparava, dagli occhi fiammeggianti, dalle battute fulminanti e dalle risate ai danni di papà che tante volte ci siamo fatte insieme.

Il rosso è un colore che mi piace e so che piaceva molto anche a lei.
Un filo rosso mi lega ancora alle amiche di scuola che hanno condiviso con me questi giorni di lutto (è compresa nell'elenco anche l'assente ma sempre presente Annalisa) ed è consolante accorgersene.

Stamattina sono tornata con mio padre al cimitero e lei era lì, nella fotografia che abbiamo scelto per la tomba. Devono essere venuti a metterla forse ieri: lunedì non c'era e poi ci sono stati giorni di pioggia e vento.
Già da ieri, comunque, sentivo di doverci tornare: volevo togliere i fiori che immaginavo secchi o marciti.
Lì per lì non me n'ero accorta, attratta dal rosso del lumino che era stato spostato. Allora, mi sono detta, qualcuno deve essere venuto. E infatti.
Al posto del lumino c'era lei, nell'ovale quasi uguale a quello dei suoi genitori.

Da lontano si vedono solo i suoi occhi leggermente socchiusi per via del sole.
Occhi parlanti. Occhi danzanti.
Ciao, mamma. Tornerò presto a trovarti.
Grazie, amiche.

venerdì 27 giugno 2014

Foto e parole per raccontare come si può. E andare avanti


Ho pubblicato questa fotografia sulla mia pagina Facebook, riscuotendo un certo gradimento. Non faccio caso, in genere, ai "mi piace" raccolti, ma in questo caso ne sono stata contenta per il significato che ha per me l'immagine.
Il cactus che vedete è sul balcone dei miei genitori da sempre. Credo di averlo fotografato (anzi, sicuramente l'ho fatto) un sacco di volte, soprattutto nel periodo in cui ho cominciato a usare la reflex, l'ultimo anno di liceo. Non ho ancora avuto il coraggio di sfogliare le centinaia di fotografie che giacciono in alcune scatole di latta, di quelle belle rigide, dei biscotti e dei panettoni, ma sono certa che tra loro ce ne sarà almeno una che ritrae la stessa pianta quando era molto più piccola di come è adesso.

Un amico di origine chietina che ho conosciuto (per ora) solo sul social network (che, a proposito di questo, ogni tanto regala anche piacevoli incontri, nel mare scivoloso delle chiacchiere poco importanti nelle quali spesso indulgo anche io), mi ha giustamente detto che la fioritura ritrovata per puro caso nei giorni appena trascorsi nel luogo in cui sono cresciuta è un segnale positivo.
Non so se sia vero, ma comunque mi ha rincuorato leggerlo. Quindi lo è davvero, un segnale positivo. Non mi ricordo chi lo diceva, ma è proprio vero che una cosa esiste quando le si dà un nome. Le parole non rispecchiano mai completamente i nostri stati d'animo, attraversati da contrastanti e insondabili accavallamenti del cuore, ma a qualcosa pure servono.

Le parole fissano ciò che non si può mai fermare, come i minuti irripetibili che stanno scorrendo anche adesso che scrivo.
Chi fotografa per hobby come me, poi, sa anche quanto la fotografia faccia lo stesso in un tempo ancora più rapido. Anche la fotografia come le parole, però, non racconta mai del tutto ciò che siamo, ciò che pensiamo. Però ci tranquillizza pensare il contrario.

Mi attacco alle parole e alle immagini più che mai in questi giorni.
La fotografia che ho scattato a mia madre non più di tre mesi fa sullo stesso balcone tuttora pieno delle sue piante oggetto spesse volte dei miei scatti mi sembra che cambi aspetto ogni volta che guardo lo schermo del mio cellulare.
Sorride, mia mamma, ma a volte sembra malinconica, altre ironica, come è stata davvero.

Non abbiamo scelto quella foto per la tomba, perché ci sembrava inadatta: più passano i giorni e più non vedo quell'ombra di sofferenza che vi abbiamo colto all'inizio.
Sono in ogni caso contenta, orgogliosa direi, che ne abbiamo scelto un'altra sempre mia, scattata in giorni d'estate, così crudelmente lievi.
Lo stesso è successo per l'altra foto che regaleremo a chi le ha voluto bene. Lo scatto, stavolta, è invernale, ma l'occasione era altrettanto felice.

Sì, abbiamo fatto bene a tenere per noi quell'ultimo scatto, che poi ultimo non è. L'ho fotografata anche in ospedale, mentre dormiva. Non ho il coraggio di cancellarla, ma non posso nemmeno guardarla. Non avrei potuto fare il fotoreporter di guerra, di questo sono sicura.

Anche a lei piaceva molto fotografare. Nel dvd che le abbiamo regalato per i suoi settant'anni c'è un intero "capitolo" in cui l'ho ritratta nell'atto di scattare. Sul suo computer ci sono le foto che ha fatto lei, molte vivaci e dinamiche, come il suo temperamento.
Un giorno potrei raccoglierle e ricavarci un altro video. Sì, credo proprio che lo farò.

Di sicuro le sarebbe piaciuto guardarlo. E' stata sempre molto felice di partecipare alle attività di tutti noi, di incoraggiarci quando era il caso. Nei tempi andati della mia adolescenza e prima giovinezza, per dire, mi ha pure aiutato un sacco di volte a sgombrare la testa dalla confusione che, tuttavia, ahimè, non mi hai mai abbandonato. Ma questa è un'altra storia.
Non dimenticherò mai quella volta tra le tante, per dire, in cui mi ha sbattuto in faccia la verità che non volevo sentire, e cioè che il ragazzo che tanto mi piaceva non mi avrebbe mai considerato.

Come aveva ragione, ma come mi fece male sentirmelo dire allora.
E' stata, voglio dire, anche duramente chiara e nel tempo mi sono accorta di aver imparato a fare lo stesso. Almeno con le persone che amo di più. E lei di sicuro mi ha amato molto.

Grazie, mamma. Tutto quell'amore è ancora qui.
Passo dopo passo sto riprendendo in mano la mia vita. Spero di sentirti sempre vicina. Spero di non dimenticarmi mai di te.
Queste parole non raccontano del tutto la verità di ciò che provo, ma, appunto, fissano il presente. Un presente di lucido vuoto che non so dipingere meglio di così.
Mi manca la tecnica. L'acquisirò come posso. Un giorno dopo l'altro, come nella canzone di Luigi Tenco usata in una delle serie di Maigret di Gino Cervi. Sono un po' pesante, sì. E pazienza.
Vero, mamma?

venerdì 20 giugno 2014

Le donne della mia famiglia e il cambiamento che verrà. Per forza


Non so se si capisce, ma questa donna anziana mi era parente. Anzi: mi è parente, benché se ne sia andata quasi un anno fa. 
Non avrei mai immaginato di ritrovarmi orfana di nonna e di mamma in meno di un anno. Si può essere razionali quanto si vuole, ma la morte ti spiazza sempre.

Non sono particolarmente triste, solo molto malinconica. E stanca. Quissù (sulla torre-casa) è tutto troppo distante e ovattato e io, invece, ho bisogno di vita. Sento gli uccellini cinguettare, mi rinfranco alla vista dei nostri mici che passano sotto la mia scrivania, ma non mi basta.
Non mi bastava prima, non mi basta adesso.

Quella donna lassù ha avuto una vita lunga, non sempre facile.
Da ragazza era secca secca, molto più di quanto io non sia mai stata. Nella foto del suo matrimonio con il mio nonno omonimo (quello ipocondriaco, una vita assai infelice dalla pensione in poi, purtroppo) aveva uno sguardo vispo, da teppa. La nostra gatta Bice, forse, nella sua precedente vita era un tipetto come lei. 

Mi mancano le sue battute fulminanti, ma sapevamo che poteva succedere che ci lasciasse.
Non riesco invece ancora a pensare all'altra, enorme perdita come a qualcosa di atteso. 
E' troppo presto, ma il buco che verrà mi spaventa.
Scrivo, probabilmente, anche per non sentire il silenzio che è in me, non tanto quello esterno, che non è mai del tutto privo di suoni.

Lentamente, molto lentamente, sto tornando alla mia "anormalità normale", come mia mamma chiamava la sua condizione dopo aver scoperto il male che ce l'ha rubata.
Non mi piaceva quel che le stava capitando e non mi piace affatto il mio presente.

Lo so, qualcosa cambierà, tanto tutto cambia sempre. Per forza.
E la telefonata di stamattina della mia amica di liceo è di buon auspicio. Sai, Jessika, volevo dirle, ho comprato due racchette a venti euro giusto l'altro giorno.
Forse il mio cambiamento ricomincia dal tennis, abbandonato troppi anni fa.
Dovevate vedermi nel campetto sgarrupato sotto casa di mia zia a tirare la pallina contro il muro.
Non c'erano testimoni, ma quei minuti sottratti al pranzo malinconico mi hanno fatto bene.

Avrei voluto forarlo, quel muro, senza rabbia, solo con tutta l'energia che vorrei usare una volta buona, prima che sia troppo tardi.
Le donne della mia famiglia che vivono anche dentro di me, con un po' dei loro geni, della loro educazione, mi hanno lasciato chiari esempi di coraggio e azione.
Non credo che li tradirò, ma spero di non metterci troppo.
Non me lo posso più permettere.

venerdì 13 giugno 2014

Il passato in fumo, come le nuvole


Mi percorrono sentimenti contrastanti, per cui, a chi mi ha chiesto "come va?", non so davvero che cosa rispondere. Mi sembra solo incredibile che non sia passata neanche una settimana dal momento in cui, mia sorella ed io, abbiamo visto la trasformazione di nostra madre in qualcosa che non so definire.
E' come se fossero trascorsi secoli e, da un altro lato, è come se quel commiato non fosse mai avvenuto.

Stamattina con nostro padre è andato mio cognato (il tedesco-abruzzese, gentile d'animo e preciso, sulle cose tecniche, per lo meno). Un pochino me ne sento sollevata, perché, obiettivamente, la ditta di pompe funebri vicino a Iurino (per quelli che sono di Chieti, per gli altri sto parlando dello stradone anonimo e trafficato che porta verso Francavilla, il paese di mare noto pure all'estero come esempio di cattiva, anzi pessima, urbanizzazione) non è proprio un bel posto.

E d'altronde la morte produce pure incombenze di questo genere. A tratti, mentre eravamo all'obitorio, mi veniva persino da sorridere osservando gli orrendi paramenti sacri dietro la bara di mia madre e ascoltando il racconto raccolto da mia sorella dalla viva voce del cassamortaro anziano circa le nuove mode per le casse, oggi sempre più chiare e con rivestimenti pendant, niente più legno scuro per la bara né cremisi  per le fodere interne, oggi ritenuti troppo troppo funerei, insomma.

Pensavo anche a tutte le volte che abbiamo visto, anche con mia madre, i molti film di Totò in cui la morte viene spesso evocata in tono scherzoso. In particolare, mi veniva in mente la scena del film di Monicelli e Steno nella quale lo sfollato Antonio incontra l'ex custode del cimitero nell'abitazione che lui si è procurato di frodo. Il principe De Curtis aveva una grande paura della nostra ahimè comune fine ed è effettivamente vero che anche nei suoi film più riusciti c'è sempre una vena di malinconia che a tratti, a mio personale giudizio, può dare persino angoscia.

Da ragazzina mi capitava ogni tanto di provare degli strani pugni allo stomaco. Devo averne già parlato un po' di post fa, dicendo di averli risentiti.
In questi giorni così difficili, invece, quella morsa non c'è ed è un altro evidente segno di cambiamento, non so quanto definitivo.

Ho acquisito, almeno per il momento, una certa lucidità di pensiero.
Non voglio troppe rotture di balle, in termini più terra terra.
Ho ricevuto alcune mail molto belle e ne sono rimasta contenta. Un amico caro che ha subìto un forte stop, per fortuna in superamento, mi ha fatto leggere delle righe bellissime del filosofo Emanuele Severino.
Qualcuno, invece, non è stato capace neanche di dirmi un generico "mi dispiace".
Un paio di persone care non sono venute al funerale, ferendomi un bel po'.

So che non è facile confrontarsi con la morte, di sicuro anch'io, fino a qualche tempo fa, non avrei saputo come comportarmi. Penso tuttavia che basterebbe essere se stessi, anche riconoscendo la propria difficoltà in modo aperto.

Non sono nessuno per giudicare: anzi, i giudicanti in genere mi stanno pesantemente sulle scatole.
Al contempo, però, non sono dotata di spirito cristiano e il perdono a priori non riesco proprio a darlo.
La mia cara amica di liceo Valentina mi ha detto "non ti arrabbiare" e io le ho risposto, quasi con disperazione, "non sono arrabbiata, solo dispiaciuta".

Troppi dispiaceri insieme fanno male, per cui preferisco tacere avvolgendomi in questo silenzio così peculiare, senza tuffi allo stomaco e lacrime che vengono solo a tratti.
Sta tuonando, la mia pelle è bollente per via del sole che ho preso in acqua ieri, giocando con i miei nipoti. Ogni tanto anche loro vengono percorsi dalla malinconia, oggi, mi è parso, più dei giorni scorsi.

Sono proprio loro quelli da proteggere, di certo non io che mi avvio alla piena maturità della vita. Nè i miei amici troppe volte assenti durante questi due lunghi anni di malattia, vissuti, per fortuna, nella vicinanza della nostra bella e affettuosa famiglia allargata.
Non sono affatto contenta che ci abbiano visto discutere, noi adulti (io e mio padre ieri sera per la melanzana alla parmigiana che secondo me era andata a male, figuriamoci un po') né di non riuscire a essere la zia giocherellona che hanno conosciuto. So che capiscono, ma restano pur sempre bambini.

Non sarà facile neanche tornarmene a casa mia, che casa mia non è, ma è abitata dal mio uomo e i nostri mici adorati. Quei due, così asociali, non hanno conosciuto mia mamma, mentre lei ha spesso contribuito al loro sostentamento. Per analogia con i nipoti, sono pur sempre gatti, bisogna viziarli e coccolarli sperando che ci ricambino in qualche modo.

Il mio passato è, in definitiva, sfumato, come quelle nuvole sfilacciate che ho fotografato ieri mattina, uscendo dalla banca di mio padre. Un posto che da bambina e da ragazza frequentavo moltissimo. Che strano tornarci dopo così tanto tempo.

Non voglio dire che se ne sia andato via, solo che è nebuloso, lontano e vicino come quel cielo dal quale, forse, mia mamma ci sta osservando tutti.
Starai ridendo?
Lo spero, con tutto il cuore.

mercoledì 4 giugno 2014

Spiacevolezze di corsia e scrittura come pratica Zen



La mamma dorme, chissà se è davvero tranquilla come ci sembra a noi che la guardiamo da oltre la sponda di ferro.
Ero lì accanto a lei quando ho ricevuto una ben strana telefonata. "Te lo dico con molta vergonia, ma sai, ho familia. In ospedale prendo molto di più di solito, basta che chiedi, loro mi conoscono. Voi ringraziando dio non lo sapevate perché non avevate mai avuto malati in familia, ma insoma, vorrei... e sono pasate già sue setimane, ho calcolato pure per i giorni pasati".
Cosa? Ci stai chiedendo di più da un giorno (neanche, un'ora) all'altro, a distanza di due settimane dal ricovero, e oltretutto vuoi pure gli arretrati?

Non so come ho fatto a resistere, o meglio, se l'ho fatto l'ho fatto solo per due ragioni: la più importante, la mamma addormentata affianco a me, la seconda, di pari valore, il rispetto nei confronti del grande sale in zucca di mio padre, al quale non mi è restato che riferire la conversazione veramente spiacevole intercorsa tra me e quella persona che avevo tanto giudicato bene perche si arrivasse a una salomonica soluzione. Se fosse stato per me, da ieri sera stessa avrei cominciato a fare io stessa le notti inospedale, ma il pater familias continua a proteggere i suoi cuccioli e date le circostanze sono in fondo contenta che lo faccia.

E dire che sono stata anche accusata (fuori dai denti) di stare troppo generalizzando per quanto ho scritto due post fa. E io che ero stata anche così idiota da non capire bene chi avevo di fronte. Sono abbastanza sicura che sia finita qua, ma davvero, spero che sia così per il bene di tutti.

Un'oretta circa dopo la simpatica chiacchierata, ho saputo dai medici gli ultimi aggiornamenti.
Anche in questo caso ho resistito alla tentazione di fare un'altra scena madre giusto perché ho trovato il modo di sfogarmi qui sul blog, ma sto meditando vendette da consumare a freddo, quando avrò recuperato tutta la lucidità necessaria per rompere veramente i coglioni. E scusate la brutta (e bruta) parola.

"Ve lo abbiamo detto venti volte com'è la situazione, è una malata terminale". Etc etc. Tutto questo lungo il corridoio, a voce alta come al mercato, davanti a vari testimoni, tra cui i due giovani specializzandi (femmina e maschio) che un attimo prima, con ben altro tono, mi avevano dato la mazzata. Non avrei dovuto parlare anche con questa zoccola truccata e potente, ma siccome il giovane maschio mi aveva comunque suggerito di sentire direttamente la dottoressa a capo del reparto in quel momento, io mi sono rivolta anche a lei.

L'ho guardata con il corpo fremente e non ho lasciato che andasse oltre. Mi sono limitata a dirle un "ok, grazie" e a guadagnare l'uscita il più velocemente possibile. Lì ho riferito la notizia a mio padre e agli altri parenti che tutti i giorni trascorrono innumerevoli ore nell'atrio del reparto o nella stanzetta interna. A turno si sono fatti cacciare, ci siamo fatti cacciare tutti, ma i rimbrotti per il nostro eccessivo affollamento non possono di certo fermarci.
Personalmente mi blocca solo la maleducazione e il sopruso
Adesso è andata mia sorella, tra poco la raggiungo. 
Tra noi neanche uno screzio, giusto qualche differenza nel modo di trattare medici, infermieri. E anche la mamma. Linda le parla molto, io la accarezzo, le lavo la faccia e poi ieri le ho fatto sentire la mia lettera. E la musica di Paolo.

Ci vogliamo un gran bene, ce ne siamo sempre voluti tantissimo. E questo è ciò che conta di più al netto di tutto il resto, che vorrei tagliare fuori.
Ma la vita ti chiama e soprattutto la merda che la contorna.
In questo momento la scrittura è per me una forma di meditazione Zen, spero funzioni.

Ieri sera è tornata la dottoressa di mia mamma, che l'ha accarezzata tutto il tempo. Per puro caso ha saputo dell'evoluzione dei rapporti tra noi e la badante albanese. Ha ripetuto anche a Linda quello che già sapevo e scritto. "Più fanno le moine - ha aggiunto un po' scherzosamente - più me ne tengo alla larga. Vostra madre ha visto tutto, ve l'avrebbe confermato". L'ha fatto anche l'altro giorno annuendo con gravità, cara Marilena. Se sapesse della contrattazione sulla sua buonuscita (ma vai a cagare, bello grosso), di sicuro la caccerebbe a pedate, ho considerato io. 
"E il bello - ha proseguito - è che poi vanno a fare le marce per la pace, ma ce ne fosse uno di loro che si prende una badante in casa. No, no: con me hanno chiuso".

Di gente buona ce n'è, tra gli italiani e gli stranieri, abbiamo considerato entrambe, ma per piacere, apriamo gli occhi. Io per prima. Il buonismo fa più danni della cattiveria.
E adesso andiamo oltre. Per davvero. 

lunedì 24 settembre 2012

Come Jane Fonda... più o meno


Oggi, purtroppo, ho la febbre. Un febbrone da cavallo, penserete voi. Per quanto mi riguarda è proprio così, dal momento che mi ammalo molto raramente. Ho... trentasette e uno, udite udite, ma è come se fossi a un passo dal delirio. Temo peraltro di esserlo già abitualmente, ma lasciamo andare.
La foto che vedete in alto, del resto, potrebbe già bastare a capire in che condizioni sono.
Tempo addietro ho realizzato che tra mia madre e la Jane Fonda regina del fitness degli anni Ottanta c'era una certa somiglianza. Chi mi conosce superficialmente ravvisa a sua volta una certa comunanza tra la prima e la sottoscritta (e d'altra parte sono figlia sua e a chi altri potrei mai rassomigliare?).
Sillogisticamente, credo, ho anch'io qualcosa della Jane. Preciso subito che non si tratta delle gambe (le mie sono, diciamo così, più forti e un tantino più corte).
Quel che più ci accomuna, in ogni caso, è proprio la passione per la ginnastica, rinvigoritasi in me da quando vivo nelle Marche, dopo una lunga fase di stop che mi aveva appesantito nel fisico e nell'anima, e via via mai più lasciata. Da un paio d'anni, in particolare, frequento la palestra simil-comunale di Fermo (la cosiddetta palestra del Coni, anche se in verità è gestita da una cooperativa che mi ha dotata persino dell'asciugamano "aziendale"), che mi piace assai per l'ambiente assolutamente nazional-popolare.
A frequentare i corsi di ginnastica, siamo donne di tutte le età e immagino ceto sociale, dai 14 anni alla sessantina e passa. La frequenza scema con l'avvicinarsi della bella stagione o del Natale, però le assidue come me restano comunque numerose.
Non so spiegare perché, ma quando sono lì che salgo e scendo dallo step o dopo, quando guardo le forti luci al neon mentre ci massacrano con gli addominali, è come se vivessi un processo mistico, come se finalmente uscissi da me stessa per diventare tutt'uno con il tappetino, confortata e stimolata dalle tante gambe all'aria che vedo intorno a me.
Mi piace mescolarmi alla massa di donne in tute da ginnastica e osservare, tra una pausa e l'altra, il gruppo delle ragazzine del liceo, le più carine del corso, che chiacchierano tra loro canticchiando le brutte canzoni dance che ci danno il ritmo degli esercizi e poi conversare di inezie con una giovane laureanda con cui abbiamo stretto una forma di amicizia da quando ci siamo accorte di essere tra le poche fanno la doccia lì.
Insomma: aspetto di solito con grande entusiasmo le ore di ginnastica settimanali, che si tengono il lunedì, il martedì (giorno dell'accumulo maggiore di acido lattico, per via dei circuiti della tostissima insegnante sessantenne... altro che Jane Fonda) e il giovedì.
Oggi, ahimè, sono costretta a saltare (il lunedì c'è Tiziana, la bionda energetica insegnante con una inesauribile fantasia per le coreografie), ma spero proprio di rimettermi in fretta.
C'è infatti una sensazione davvero impagabile che provo solo alla fine, quando, dopo la doccia e la parziale (accidenti a me) asciugatura dei capelli, mi rimetto in macchina e percorro i pochissimi chilometri che mi separano da casa. In quel breve tratto, mi sento completamente in pace con me stessa, pronta ad affrontare qualsiasi sfida, in una sorta di limbo psicofisico carico di benessere.
Ecco. Sarà questa la vera ragione che ha spinto la Jane a darsi all'aerobica. Ancora adesso (almeno fino a un paio d'anni fa sicuramente) insegna ginnastica agli anziani a distanza, con quel sorriso tipico delle vere maestre del muscolo tonico, capaci di farti sentire più magre e più flessuose già dopo una sola sequenza di glutei o di squat.
E se davvero (ma sarà vero?) che un po' le somiglio, mi auguro soprattutto di conservarne lo spirito. A differenza sua, infatti, non credo che potrò (né forse vorrò, ma mai dire mai) ricorrere al chirurgo estetico, al momento del prolasso inevitabile.
Ma qui posso dirlo: mia madre è ancora piuttosto piacente (checché ne dica lei), quindi se è vero che buon sangue non mente...
La vedremo. Per forza. Il tempo corre. Accidenti se lo fa.